Vedo che il cammino della legge sulla lingua sarda non procede spedito. Ammetto che l’impasse (se tale è) non mi appassiona. Un po’ perché sono un italiota, un lacchè di prefetti, un dipendentista o più semplicemente un coglione come la vivace ma tollerante pattuglia indipendentista dice sui social di me e degli altri che la pensano diversamente da loro. Ma piuttosto che le mie opinioni in materia di sovranismo, a farmi drizzare allarmate antenne è l’associazione tra lingua e legge. Anche in questa materia la penso da ignorante come in quella che riguarda lo spirito nazionale. Penso cioè che la sopravvivenza di una lingua parlata sia legata a molte faccende di carattere antropologico ma non legale. Se fingono di fare anche altro che non sia regolarne un uso colto, non sono leggi buone ma demagogia. E a proposito di populismo, vorrei dire che la travolgente ondata di consensi su Facebook alla visione del mondo di Salvini molto spesso straripa dalle sponde della lingua italiana. Non per spargersi su lingue minoritarie fieramente difese, ma per perdersi in sgrammaticature e uso incerto del lessico. A leggere la prosa e la poesia di quella grande maggioranza nazionale che finalmente sta mettendo in riga tutti noi comunisti si ha l’impressione che l’eroico lavoro del maestro Manzi negli anni Sessanta si stia dissolvendo in un inspiegabile analfabetismo di ritorno. Inspiegabile perché, sempre nella mia asserita ignoranza, ero convinto che leggere e scrivere fosse un po’ come andare in bicicletta: cioè quando lo impari non lo dimentichi più. Ma per parlare del Sardo e della legge che lo vuole regolare, non è una questione di ignoranza. Anzi, alcuni di quelli che vorrebbero questa lingua adottata d’imperio in tutte le sue varianti locali o che comunque la considerano la loro vera lingua più dell’Italiano, sono fior di intellettuali: professori, poeti, fini romanzieri a esempio. E quindi, poiché ho un rispetto sacro della cultura, mi tengo le mie opinioni ma non derido le loro. Che però alle volte mi sconcertano. L’altro giorno, a esempio, ho presentato con Antonello Bazzu ed Eugenio Cossu “L’amara gioia”, un romanzo di Giuseppe Tirotto che mi è piaciuto molto anche per l’uso davvero articolato ma insieme fluido e coinvolgente della lingua italiana. Tirotto, di Castelsardo, ha pubblicato molto anche in sardo-corso e lo ritengo quindi semplicemente uno scrittore bilingue. Come del resto, molto più modestamente, sono io quando scrivo commedie in Sassarese. “L’amara gioia” è una riscrittura italiana di una storia da lui pubblicata anni fa in Sardo. E sono rimasto un po’ sconcertato quando, incalzato dalle domande e dai commenti di un pubblico molto interessato alla questione della lingua – forse più che alla struttura del romanzo -, Giuseppe ha parlato di questa riscrittura quasi come di una necessità per arrivare a un pubblico più ampio. Tanto di cappello se riesce a scrivere un’opera così bella usando una lingua che ritiene seconda e non prima. Ma devo ammettere che la cosa mi ha dato un po’ di tristezza, l’ho avvertita quasi come un tradimento. Giuseppe può mettersi a ridere e rispondermi: “Ma quale tradimento? Tradimento sarebbe se io ti avessi detto qualche volta che in materia di lingua la penso come te. Ma sai bene che non è così”. Eh, lo so. Ma, Giuseppe, è un fatto di sensazioni. Vedere un così bravo scrittore italiano che, se ho capito bene, non considera l’Italiano la sua prima lingua mi confonde, non posso farci niente.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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