In questi mesi, insieme a Roberto Bolognesi e agli altri colleghi di Sardegnablogger, stiamo cercando di fornire una interpretazione meno fossilizzata e condizionata della storia e della cultura sarda, prendendo spunto dalla vicenda dei giganti di Mont’e Prama. Il mio articolo sul pugilatore di Mont’e Prama, criticava una interpretazione che veniva ripetuta, nel tempo, in maniera acritica. Ha sollevato un polverone, una vera e propria levata di scudi da parte della categoria archeologica che non era mia intenzione, peraltro, tirare in ballo come tale. Torniamo per un attimo nel merito delle mie considerazioni, sul fatto che, a mio parere, secondo una prospettiva antropologica che studia in modo diacronico la cultura dei popoli, quella statua non può rappresentare un pugilatore. Le statue “rappresentano” qualcosa, sono rappresentative per funzione, tramite il gesto o tramite l’aspetto. Dato che le statue di Mont’e Prama sono statiche, mi è stato detto tra il polverone sollevato, non potevano mostrarsi come pugilatori nel gesto. E allora dovrebbero esserlo nell’aspetto, altrimenti potrebbero essere qualunque cosa, nuotatori, danzatori, corridori. Questa statua presenta, tra l’altro, la caratteristica dello scudo tenuto in alto sopra la testa a mo di riparo, che non si è mai vista nella storia antica del pugilato e simili. Da dove deriva dunque questa caratterizzazione come pugilatori? Secondo gli archeologi, deriva dalla somiglianza con un bronzetto nuragico che Lilliu, alla fine degli anni ’60, aveva definito “sacerdote pugilatore”, in virtù di una protezione e di un rinforzo che porta sul braccio e sulla mano, che ricorda quello usato dai pugili antichi. Tutto qui? Anche meno! Perché in realtà il bronzetto del pugilatore contiene palesi differenze con la statua, principalmente dovute alla protezione in testa che risulta essere morbida anziché rigida. Un panno, forse in cuoio, anziché uno scudo. Pensate: la denominazione di “pugilatore” deriva da un bronzetto nuragico che gli somiglia giusto un poco, il quale, anch’esso, è stato definito tale sulla base di una analogia piuttosto vaga! Eppure, questa interpretazione viene comunemente accettata dagli stessi che, ad ogni novità, ad ogni teoria nuova attivano un fuoco di sbarramento costituito dal tipico “non ci sono prove” o da “non utilizza il metodo scientifico”. Ma, a quanto pare, pensare, invece, che fosse un soldato, il quale, avendo uno scudo sopra la testa, si ripara dalla pioggia di pietre e di frecce è un’eresia. Per non parlare di provare a ragionare sul fatto che, una civiltà così avanzata, potesse avere ideato una qualche difesa collettiva simile a quella che, nel corso delle epoche, attivano le forze armate, dagli antichi greci e romani alle moderne forze di polizia, con gli scudi. Ora, la mia non era una teoria, era un suggerimento. Potrebbe essere sbagliata. E’ solo l’intuizione di un antropologo appassionato di storia sarda. Ed è chiaro che andrebbe corroborata da dati archeologici i quali potrebbero anche escluderla. Che sarebbe un passo in avanti per la scienza anche procedere per esclusione. Ma io sono stato attaccato come se a me interessasse difenderla. Invece a me interessava mostrare due cose, con quell’articolo. Uno, lavorare per l’abbattimento degli staccati disciplinari nella scienza Mi spiego meglio con un esempio: se quando emerse la teoria dei nuraghi come fortezze di un popolo sempre in guerra al suo interno, si fosse consultato un antropologo, ci saremo evitati una visione negativa dei sardi che ha fatto danni enormi alla psicologia collettiva per decenni. Infatti nessuna società, di ogni epoca e di ogni luogo, sarebbe mai potuta sopravvivere in una situazione di quel tipo. Una comunità può superare delle crisi, delle guerre civili, delle faide, ma non una guerra perenne tra cantoni e sopravvivere un millennio e oltre come la civiltà nuragica. Nel caso dei giganti, poi, sarebbe interessante dirimere la questione se le statue rappresentano una formazione bellica o una celebrazione di atleti collegata alla presenza funerea del luogo. In questo senso vi sono delle costanti antropologiche, nella storia dell’umanità, che dividono nettamente i due momenti, quello bellico e quello delle cerimonie atletiche, il che significa che è altamente improbabile che quelle statue possano mescolare soldati e atleti nello stesso contesto, pugilatori e guerrieri. A meno che non siano dei guerrieri che invece di usare la spada o l’arco usano il maglio, ma allora chiamarli “pugilatori” appare incongruo. Ma questi steccati, queste chiusure fanno parte di una visione che la scienza, purtroppo, dalla separazione dei saperi in poi, persegue come cammino in un mondo sempre più tecnocratico e razionalista. Secondo: mostrare l’attaccamento pregiudiziale che certi ambienti scientifici hanno nei confronti di teorie che, pur palesemente inconsistenti, rappresentano lo status quo. E l’ho mostrato. Ho grande rispetto del lavoro degli archeologi e non ho nessuna intenzione di sovrappormi. Però sarebbe bene, a mio parere, non rinchiudersi troppo negli steccati disciplinari, che allontanano dalla scienza, e provare nuove strade, dettate dalla logica. Forse noi sardi non saremo come ci hanno dipinto quegli archeologi che, nel passato, ci hanno visto dentro una perenne guerra, e forse sarebbe bene non ripetere pedissequamente, ad ogni occasione, la semibufala del pocoslocosymaleunidos. Tuttavia, è serio ammettere che, spesso, ci lasciamo travolgere da un sentimento dello steccato, une dimensione distruttiva che supera il desiderio di progredire per un obbiettivo comune.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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