Ogni tanto spostavo la tendina della finestra accanto alla scrivania, perché la stanza venisse inondata dalla luce di una mattinata cristallina: desideravo esserne accecato, la cercavo come il sole in certe domeniche estive trascorse in riva al mare. Sgambettavano sul viale lastricato bambini infagottati in cappotti colorati, presi per mano da genitori indaffarati nelle compere della vigilia di Natale. Avvertivo come sempre i suoni cadenzati dell’ufficio postale, l’armonia quotidiana cristallizzata da vent’anni di vita dentro quella stanza da direttore, ma la giornata d’attesa si esauriva nella serena certezza di un giorno di pace. Nessuno protestava, spesso un’euforia latente esplodeva in fragorose risate senza ragione. Il maestrale dei giorni passati aveva disinfettato l’aria, consegnandola al gelo di dicembre. Era una vigilia nitida e ogni dettaglio della città risaltava netto. All’ora del caffè di mezza mattina, da un bar di Corso Umberto, il mio sguardo spaziava giù giù sino alle mastodontiche navi bianche attraccate alle banchine del porto, all’ombra della colossale sagome di Tavolara. Il frastuono di un progresso tumultuoso non aveva privato Olbia dei suoi colori e del suo chiacchiericcio da comunità di provincia. Un po’ infiacchito da un anno intenso attendevo stancamente il timbro del cartellino di fine giornata. Venti minuti d’auto sarebbero bastati per tornare a casa, al paese, ad un’ora decente perché prima di cena potessi coccolare mia moglie e mia figlia portandole a prendere un aperitivo, una crêpes con la nutella, magari una cioccolata calda coperta da una montagna di panna. Volevo abbandonarmi con loro all’abbraccio del Natale. In quel momento s’arrestò davanti alla porta spalancata un giovane dalla barba incolta e dal fisico asciutto, vestito con abiti da lavoro macchiati di calce e schizzi di cemento. Trasportava una cassetta di cartone di cui giungeva sino a me, seduto alla scrivania, l’odore di muffa. La teneva tra le mani come una reliquia preziosa. “E lei il direttore?” “Sì, dica pure”. “Ecco, è una cosa un poco strana ma credo sia lei la persona giusta alla quale farla presente. Posso rubarle un minuto?”. Lo feci accomodare e lo pregai di raccontare tutto, assicurandogli che non lo avrei interrotto. Tonino, il mio vice, dalla sua postazione continuava a sbrigare pratiche e a rispondere al telefono. Interruppe le sue occupazioni quando l’uomo iniziò l’esposizione. “Dunque, io mi chiamo Andrea Doneddu e assieme al socio della mia piccola ditta edile sto lavorando alla ristrutturazione di alcuni ruderi davanti alla stazione ferroviaria, a cinquecento metri da qua. Immagino abbia sentito parlare del grande progetto dell’Urban Center: rimettono in sesto case abbandonate da decenni e poi le vendono o le trasformano in alloggi popolari. Un subappalto è toccato a noi. Comunque, in una stanza di uno di questi tuguri abbiamo trovato questa scatola: il tetto ha retto fino a oggi e l’ha protetta”. Lo fissai senza emettere una sillaba, come si potrebbe osservare un folle. Il giovanotto capì al volo. “Lei c’entra, stia tranquillo. Dentro la scatola erano riposte lettere vecchissime, mi sono permesso di curiosare e tutte risalgono al periodo della seconda guerra mondiale. Mi sembra quasi tutta corrispondenza ordinaria, tranne questa”. Mi allungò una busta di carta grezza, ingiallita dal tempo. Al tatto mi sembrò sorprendentemente secca, neppure sfiorata dall’umidità accumulata in migliaia di giorni di permanenza tra quelle quattro pareti cadenti. Si leggeva distintamente il timbro dell’esercito regio sulla busta, ripetuto sulla carta intestata della lettera. Questa risultava indirizzata alla signora Paola Degortes, coniugata con Italo Deiana: una ulteriore notizia aggiunta dai colonnello Giovanni Giua, il mittente, forse per rendere più facile la vita del postino che avrebbe dovuto recapitarla al destinatario senza però conoscerne la via, indicazione omessa dal plico. Recava la data del 17 febbraio 1943, ma ad Olbia era arrivata solo a maggio. Dalla busta estrassi anche una foto dai contorni mangiucchiati, un primo piano di un soldato giovanissimo e sorridente in divisa militare. Guardai negli occhi il muratore poi volsi lo sguardo verso Tonino, impietrito da attenzione e curiosità. Iniziai a leggere. La grafia era precisa, dall’uso appropriato della lingua riconobbi il superiore livello di istruzione dell’autore. Cara Paola, Ella mi perdonerà se mi rivolgo alla Sua persona con questa formula confindenziale che Le potrà apparire inopportuna, dal momento che tra noi non vi è la benché minima conoscenza. Io sono il colonnello Giovanni Giua, comandante del XI Reggimento Artiglieria di Corpo D’Armata cui apparteneva il suo valoroso marito Italo, a fianco del quale ho condiviso la nostra drammatica spedizione nell’Unione Sovietica. Uniti dalla comune esperienza bellica e dalla stessa terra di appartenenza, dal momento che io stesso sono sardo e precisamente originario di Luras. Le scrivo questa lettera dall’ospedale di riserva di Charkiv, nella regione dell’Ucraina, dal quale sono stato appena dimesso dopo il ricovero reso necessario dai postumi delle ferite riportate durante la ritirata, iniziata alla fine del mese di gennaio. In questa stesso luogo di cura era stato accolto Italo, le cui condizioni di salute si erano però sin dal primo momento rivelate molto serie a causa di un assideramento causato dalle rigide temperature di queste regioni. Con profonda commozione, mi vedo costretto a comunicarLe che per salvare la vita del suo caro marito nulla si è potuto fare. Egli è morto da eroe, così come aveva combattuto. Mancando mezzi e condizioni per rimpatriare la salma, si è provveduto ad una provvisoria tumulazione in un cimitero civile nei pressi di codesto ospedale. Sulla lapide sono stati apposti nome e dati di nascita di Suo marito, affinché sia possibile localizzarlo. Inoltre, è stato formalmente garantito dalle Autorità che i resti mortali non saranno rimossi fin quando un famigliare non ne faccia espressa richiesta. Quando la guerra si sarà conclusa, Ella potrà avviare le procedure per riportare Italo nella sua amata Olbia. Mi permetta di rivolgerLe le mie più sentite condoglianze. Colonnello Giovanni Giua. Silenzio. Poi Andrea poggiò la scatola sulla scrivania e si alzò di scatto. “Se non ha altro da chiedermi tornerei al lavoro. Avesse ancora bisogno di me, le lascio il mio biglietto col numero di cellulare”. L’uomo calzava scarpe da lavoro corazzate e il pesante cadere dei passi sul pavimento si spense solo quando fu molto distante dalla stanza. Allora fui io a parlare. A me stesso e a Tonino. “Non me ne vado finché non avrò consegnato a figli o nipoti questa lettera. Potrei dire che in fondo non è affare mio, invece lo è. Eccome”. Tonino non ebbe nulla da obiettare. Senza che mi fosse stato necessario aggiungere una parola aveva capito e condiviso il dovere di restituire ai famigliari qualcosa che a loro era sempre appartenuto, benché perso nel tempo e nello sbiadire della memoria e del dolore. Era la vigilia di Natale, si erano fatte le quattro del pomeriggio e tutti trepidavamo per tornare nelle nostre case. Ma io avevo una lettera da recapitare e delle scuse da porgere per il ritardo nella consegna. Di Paole Degortes vedove Deiana ne risultavano due, ma considerando la presumibile età della signora – ammesso fosse ancora viva – nessuna di queste poteva essere la moglie del soldato. A Tonino venne in mente che Antonio Addis, il novantenne parroco della Parrocchia della Sacra Famiglia, aveva curato una pubblicazione sugli olbiesi schierati sui vari fronti della seconda guerra. Il mio vice era anche certo che il sacerdote custodisse ancora un registro con i loro nomi. “Accompagnami da lui”. Stretti nei nostri cappotti, salutammo i colleghi per metterci in caccia di un indirizzo. Tonino aveva rapporti amichevoli con Don Addis e sapeva che lo avrebbe trovato in chiesa: quella era l’ora della confessione. Il Parroco ci condusse nella canonica e ascoltò con attenzione il mio racconto. Nell’incupirsi del volto e nello stupore dello sguardo lessi in lui un profondo turbamento, quello sgomento che in certe espressioni rende simili i vecchi come lui ai bambini. Sfogliò un paio di registri, poi ci invitò a sederci. “Quando partì con l’Armata italiana in Russia Italo aveva 25 anni e un figlio di pochi mesi, Andrea, nato nella casa in località Cabu Abbas. Paola, la moglie, non ha mai saputo nulla di certo sulla sorte del marito e non mi risulta che abbia mai scoperto il luogo della sua sepoltura. Lei è morta di un brutto male negli anni settanta. Ora, voi sarete curiosi di chiedermi il perché io disponga di tutte queste informazioni”. “Ecco, ce lo dica”, intervenne Tonino. Il prete pigliò fiato. “Andrea a vent’anni è emigrato in Germania perché gli avevano offerto un posto da cameriere. E là si è sposato e ha messo su famiglia. E’ tornato in Sardegna ogni anno finché la madre è stata in vita, poi non più. Ha ricominciato da quando uno dei suoi tre figli, Italo, ha sentito l’esigenza di scoprire le sue radici, di saperne di più della storia di un nonno mai conosciuto e ha chiesto di vedere Olbia. Si rivolsero a me perché vennero a sapere della mia pubblicazione e degli studi che ho svolto sul sacrificio dei miei concittadini. Da allora vengono a trovarmi ogni estate e mi rinnovano sempre l’invito ad avvertirli qualora si sappia qualcosa del povero Italo”. Si concesse un sorso d’acqua, poi ricominciò a raccontare. Sembrava indagare nella memoria, ingegnarsi per mettere in connessione più elementi. “Nella casa dove è stata trovata la lettera abitava Michele Giua, postino occasionale. Fu una delle vittime del bombardamento alleato su Olbia del 14 maggio 1943: forse aveva depositato quelle lettere a casa perché aveva difficoltà a recapitarle, nel caso di Italo mancava ad esempio un indirizzo preciso. Ma la morte lo colse prima che potesse farlo. Del resto, la data di arrivo coincide con i giorni dei raid aerei: troppi indizi mi fanno ritenere che le cose siano andate esattamente come sto ipotizzando”. Io e Tonino avevamo perso il dono della parola, disarmati dal fiuto da investigatore del vecchio prelato. Don Antonio si alzò, raggiunse con passo fermo una credenza e da un cassetto ne estrasse una rubrica. Poi si sedette ad un tavolino e alzò la cornetta del telefono. “Andrea? Sono Don Addis da Olbia e ho bisogno di parlarti. Anzi, ti passo il direttore dell’ufficio postale”. Mi porse il telefono, lo raccolsi senza sapere cosa dire. “Lei non sa chi sono, ma ho qualcosa per lei”. Lessi la lettera del colonnello Giua, lentamente. Poi mi scusai a nome dell’azienda che rappresentavo per il disservizio. La risposta fu un pianto violento, liberatorio, l’impatto improvviso con una verità cercata invano per più ci sessant’anni. Ora Andrea e Italo jr avevano una tomba dove poter versare delle lacrime, lontana migliaia di chilometri ma raggiungibile. Lasciammo la chiesa, abbracciai Tonino e mi infilai nella mia auto. L’orologio sul display illuminato mi fece presente che erano quasi le otto: l’aperitivo promesso a moglie e figlia era ormai perduto. Dal finestrino guardai il porto illuminato dal viale Isola Bianca, lo stesso da cui Italo Deiana si era imbarcato verso la morte lasciando una moglie ragazzina e un figlio in fasce. Aprii il portone di casa e trovai il tavolo apparecchiato come solo ad una vigilia di Natale può esserlo, affollato da cugini, zii e nonni. Giulia mi corse incontro saltandomi in braccio e domandandomi il perché di quel ritardo ingiustificato. “Papà, cosa mi ha portato Babbo Natale?”. “Ti ha portato una storia. Ora te la racconto”.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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