Da un po’ di tempo a questa parte fervono le polemiche e gli scontri tra due opposte fazioni: quella dell’archeologia “ufficiale”, che rivendica l’esclusiva delle interpretazioni nei riguardi della antica storia nuragica, e quella degli outsiders, definiti, con una buona dose di sarcasmo, “archeosardisti”, o “fantarcheologi”, e ora “fantarcheosardisti”. L’ultimo atto di questa guerra è l’uscita, in una pubblicazione ufficiale sui giganti di Mont’e Prama, ultimo casus belli di questa guerra, di un articolo di Rubens D’Oriano, autorevole archeologo della Soprintendenza. D’Oriano difende il ruolo del rigore scientifico nelle cose archeologiche, confutando, con alcuni esempi critici, i casi di “fantarcheologia” più conosciuti, come quello della teoria del giornalista Sergio Frau. Una riflessione, anche carica di sarcasmo, che polarizza il dibattito, ponendo a confronto la professionalità degli archeologici con la fantasia degli outsiders. Esplicita, secondo D’Oriano, la caratterizzazione politica di costoro, di matrice sardista o addirittura indipendentista, volta a ricreare artificialmente una storia sarda vanagloriosa utile per una rivendicazione strumentale. L’archeologo si scaglia poi sul vario stupidario mediatico riferito alla cultura storica sarda e generale, sottolineando che, enti privati ma soprattutto pubblici, dovrebbero tenere conto del curriculum scientifico di ciascuno prima di considerare queste teorie. Divulgare teorie archeologiche errate, sostiene, non è meno grave che divulgare teorie mediche inefficaci e dannose. Sintetizzo la riflessione dell’autorevole archeologo perché mi sembra emblematica della discussione in corso e perché ritengo che vi siano spunti di interesse che vadano oltre la diatriba tra scienza ufficiale e dilettanti. Intanto mi corre obbligo di sottolineare che l’articolo di D’Oriano comporta delle implicazioni di natura sociologica e persino antropologica. Se vale il discorso di primogenitura degli archeologi, dovrebbe valere anche per queste ultime discipline nomotetiche. Questa visione spezzettata delle discipline scientifiche, anche di quelle umanistiche dove l’ermeneutica dovrebbe essere interdisciplinare, è purtroppo uno dei più grandi mali del pensiero moderno occidentale. La separazione dei saperi ha avuto conseguenze nefaste su tutto l’ordine delle idee, principalmente, a cascata, nel campo della politica economica e delle politiche sociali. L’analizzare infatti un fenomeno sociale considerando solo gli aspetti parziali, più radicali o di interesse dialettico relativi ad una contesa in atto, porta a quella deformazione dell’analisi scientifica nota con il nome di riduzionismo. Quello che sorprende, in questa “guerra”, è l’assoluta mancanza di “bon ton”, per dirla in francese, o di “fair play”, per dirla all’inglese. Tanto che alcuni archeologi oggi paiono dei “fiancheggiatori”, più o meno dichiarati, di siti internet che operano in maniera criminale con calunnie e diffamazioni dalle implicazioni giudiziarie piuttosto serie. Mi spiego. I fantarcheologi sono sempre esistiti, come sono esistiti anche gli appassionati e i culturi della materia. Sui primi, di solito, si chiude bonariamente un occhio. Non ho mai sentito gli egittologi scagliarsi contro la filmografia sulle “mummie”, o gli scienziati scozzesi prendere aspra posizione contro il mostro di Loch Ness. Neppure in Inghilterra si sognerebbero di ridicolizzare i tanti “fricchettoni” che affollano la ricostruzione archeologica di Stonehenge con le loro teorie improbabili. Portano soldi e non fanno del male a nessuno. In Sardegna, invece, accade questo, che le vulgate nuragologiche diventino oggetto di aspra contesa scientifica. Perché? Maliziosamente verrebbe da pensare che, in realtà, questa presa di posizione tenda ad una operazione dialettica, ovvero mettere insieme gli uni con gli altri, i fantascientifici con gli appassionati più seri e scrupolosi, in modo da rappresentarli allo stesso modo. Se prendiamo uno dei primi casus belli della “guerra”, quello del libro “atlantideo” di Frau, vedremo che esso ha scatenato una chiusura decisa, inequivocabile, da parte dell’accademia. Lo stesso D’Oriano confuta in maniera inequivocabile la teoria sullo tsunami che avrebbe investito le coste dell’isola. In pratica, però, confuta la parte meno credibile della teoria, quella che ha fatto storcere il naso ai più, mentre omette di discutere alcune intuizioni che invece, a molti osservatori, sono risultate interessanti, come quella, ad esempio, che man mano che procedessero nell’esplorazione del Mediterraneo, i greci spostassero un po’ più in là i confini del mondo, le Colonne d’Ercole. Sul piano antropologico, la cosa è assolutamente plausibile. Ecco che, posta in questi termini, la confutazione assume i contorni della chiusura più pregiudiziale che teorica. E se è vero che non è opportuno che enti pubblici finanzino operazioni archeologiche non sostenute dalla credibilità scientifica, è sempre bene ricordare che l’etica della scienza, sostenuta anch’essa, con finanziamenti pubblici, è la divulgazione. Nessuno Stato finanzierebbe enti di ricerca e università se non vi fosse una ricaduta culturale più generale, se le acquisizioni avessero un esclusivo fine autoreferenziale. Fa parte dell’etica scientifica produrre risultati, divulgarli e anche sottoporli al giudizio e alla critica degli appassionati, che spesso sono dei veri e propri esperti. Altrimenti entreremo dentro l’assurdo sofismo della torre d’avorio: io sono un musicista, uno scrittore, un sociologo, un antropologo, un archeologo, ti prendi il mio pacchetto e te lo porti a casa senza fiatare, che l’esperto sono io. Non si parla ovviamente degli aspetti professionali più tecnici, ma degli “abstract”, delle teorie più generali. Non c’è nulla di male affinché la scienza ufficiale dialoghi con le parti più attente e appassionate della società, anzi sarebbe auspicabile per il bene di tutti. E tuttavia, lo studio del rapporto tra aree geografiche forti e deboli, ha messo in luce una tendenza culturale egemonica da parte delle prime con forti implicazioni, principalmente, proprio sulla storia delle seconde. La storia costruisce la nazionalità. Un campo di studi interdisciplinare che trova in Sardegna interessanti applicazioni analitiche. Ma questa percezione, che è sempre di più popolare, di una storia sarda sottovalutata e piegata ad interessi nazionali ed economici “altri”, finisce per trovare, nella scienza ufficiale, il suo accusato principale. Che invece che tendere all’apertura, tende alla chiusura. Così, è chiaro, lo scontro finisce per polarizzarsi, con reciproci scambi di accuse, e per creare un clima di diffidenza, un fossato tra scienza ufficiale e il mondo degli appassionati e delle persone interessate. Il risultato è che “il popolo” finisce per perdere progressivamente fiducia nel mondo accademico e scientifico. Invece quel popolo, alla fine, a prescindere dalle radicalizzazioni estreme e dalle strumentalizzazioni politiche, non chiede altro che investire nei beni culturali, non solo per restituire alla Sardegna, principalmente, quella storia di cui ogni comunità di persone ha bisogno per riempire il proprio immaginario collettivo, ma anche per fondare un modello di sviluppo che veda nelle immense risorse archeologiche sarde un riferimento importante. Che è la stessa cosa che chiedono gli archeologi. Insomma, da questa guerra chi ci rimette, principalmente, sono i giovani studiosi. Quelli che si sono laureati, hanno fatto l’Erasmus e il master, si sono spezzati la schiena nei cantieri archeologi, e ora sono convinti che il nemico è la scrittura di Gigi Sanna o lo tsunami di Frau. Una generazione di giovani studiosi di tutti e campi e le materie che questa società, tutta presa a saldare bilanci e a fare la guerra con nemici immaginari, ha completamente abbandonato e lasciato allo sbando. Come ho proposto in questo articolo, Un parco per Mont’e Prama , se vi fosse un investimento concreto, connaturato all’importanza della scoperta in atto, sarebbero proprio loro, i giovani studiosi, a beneficiarne. Altro che fantarcheologi o archeosardisti.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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