A distanza di ormai quindici anni da quando l’espressione “guerra al terrore” venne utilizzata da George W. Bush, i media continuano imperterriti a farvi ricorso in maniera acritica, del tutto indifferenti rispetto ai disastrosi effetti geopolitici e, soprattutto, agli enormi costi umani causati dal complesso di aggressioni militari -perché di ciò in realtà si è trattato e si tratta- occultati da tale slogan.
A rinfrescare la labile memoria degli occidentali sulla realtà dietro la propaganda ci pensano due fonti autorevoli: la CIA e il gruppo Physicians for Social Responsibility (PSR).
La principale agenzia di spioni americani, per quanto recentemente abbia dichiarato di aver distrutto “per errore” l’unica coppia in suo possesso del rapporto di 6.700 pagine riguardante i suoi “metodi di interrogatorio”, confermando che a Langley hanno uno spiccato senso dell’umorismo, ha tuttavia pubblicato una serie di documenti sulle torture e le cosiddette “rendition”, di fatto sequestri di persona, in uso presso l’intelligence statunitense. La seconda organizzazione citata, da più di cinquant’anni impegnata a combattere lo sviluppo e l’uso delle armi nucleari, nonché il ruolo preponderante dell’esercito e dell’industria degli armamenti nella politica estera degli Stati Uniti, non ha bisogno di distruggere i propri rapporti né per sbaglio né di proposito; tutt’altro, nel 2015 pubblica un documento che fornisce dei dati sugli “effetti collaterali” della guerra al terrore, i quali non hanno certo ottenuto l’attenzione che avrebbero meritata da parte della maggior parte dei mezzi d’informazione.
Iniziamo dai documenti della CIA, un vero e proprio saggio di neo-lingua orwelliana, nel quale si possono leggere simili perle di distacco professionale: “[…] applicare, in modo cauto, professionale e sicuro, l’intera gamma delle tecniche di interrogatorio”; o ancora, “Entrambi i terroristi erano chiaramente convinti della mancanza da parte degli Stati Uniti della capacità e volontà di applicare pressioni psicologiche e fisiche atte a spingerli a cooperare”. L’esegesi del freddo linguaggio utilizzato dai burocrati dell’intelligence USA è agevolata dalla lettura di un altro documento della CIA, lo Human Resource Exploitation Training Manual, un testo del 1983 usato in Honduras che codifica pratiche che sarebbero riemerse ad Abu Ghraib e Guantanamo: si va dalla manipolazione del tempo allo sconvolgimento dei ritmi del sonno, dal disorientamento riguardo il giorno e la notte agli interrogatori senza logica; il tutto allo scopo di “indurre regressione psicologica nel soggetto portando una forza esterna superiore a scontrarsi con la sua volontà di resistere”. Un’interpretazione del resto confermata e aggravata da un’ulteriore lettura dei file da cui abbiamo preso le mosse: alla voce Tecniche standard leggiamo “[…] isolamento, privazione del sonno che non ecceda le 72 ore, riduzione dell’apporto calorico, […] privazione di materiali di lettura, uso di musica ad alto volume o rumore bianco, […] e l’uso di pannoloni per periodi limitati […]”. La privazione del sonno non deve superare le 72 ore, bontà loro.
Veniamo al rapporto del PSR, il quale fissa il numero delle vittime della cosiddetta guerra al terrore ad almeno 1,3 milioni, colmando la lacuna lasciata da organismi come Iraq Body Count o il controverso studio della rivista medica The Lancet, limitati al conteggio delle sole vittime irachene, estendendo quindi la ricerca all’Afghnistan e al Pakistan. Eppure, tutti e tre i rapporti citati potrebbero sottostimare il numero dei morti, essendo circoscritti alle vittime di conflitti violenti, escludendo per tanto quelle dovute alla distruzione delle infrastrutture esito della decennale guerra scatenata da Stati Uniti e alleati dopo l’undici settembre. Alle vittime in carne e ossa vanno aggiunte inoltre le devastazioni sul piano culturale e della vita intellettuale, col saccheggio dei musei, delle biblioteche e gli omicidi di accademici, intellettuali e professionisti; il tutto, se non frutto di una deliberata strategia, come con buoni argomenti hanno sostenuto alcuni studiosi (in proposito si può leggere la raccolta di saggi Cultural Cleansing in Iraq), certamente conseguenza della colposa e attiva indifferenza delle forze occupanti: come dimenticare l’ineffabile reazione dell’allora Segretario alla difesa Rumsfeld di fronte alle razzie al Museo nazionale iracheno di Baghdad, “stuff happens”, “cose che succedono”, dopotutto si trattava di “qualche vaso”.
Nel settembre del 2001 George W. Bush dichiarava al Congresso: “La nostra guerra al terrore inizia con al Qaeda, ma non termina lì. Non finirà sino a quando ogni gruppo terroristico di portata globale sarà scovato, fermato e sconfitto”. Non è finita infatti, e non finirà a breve, ciò nonostante le cose sono andate un po’ diversamente. Al Qaeda, sia pur ridimensionata, può godere delle ambiguità di USA e alleati vari, la Francia in particolare, in alcuni teatri di guerra vicino-orientali come la Siria e lo Yemen; nel primo paese impegnati, sebbene con meno convinzione rispetto all’Iraq, nell’ennesimo tentativo di cambio di regime, nel secondo ad appoggiare i sauditi contro i ribelli sciiti Houthi. Stati Uniti che sembrano del tutto dimentichi, o meglio cinicamente indifferenti, nel primo caso agli esiti tragici della defenestrazione di Saddam, nel secondo a quella che l’ONU ha definito una “crisi dimenticata”, in cui la coalizione a guida saudita, spalleggiata per altro anche dal governo italiano, bombarda e spinge sull’orlo della fame migliaia di persone, soprattutto minori, senza suscitare un decimo dell’indignazione seguita a casi analoghi in Siria.
Quando in contemporanea agli attacchi terroristici a Parigi del 2015 una duplice esplosione in un quartiere di Beirut, rivendicata dall’ISIS, fece una quarantina di morti, gran parte dei media occidentali liquidarono frettolosamente la vicenda come un attacco alla “roccaforte di Hezbollah”; idem per quanto riguarda gli attentati, il mese scorso, della stessa matrice, a Jableh e Tartus in Siria, “roccaforti del regime”, i cui civili non anno nome, individualità e non meritano un “Je suis…” quali vittime dello stesso terrore che ha colpito le capitali europee. Figuriamoci le vittime del terrore occidentale sul cui numero non c’è accordo, se non sul fatto che è più alto di certe stime ufficiali, e in continua crescita.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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