Per spiegare Barcellona bisogna entrare nel ventre della Sagrada Famiglia, la chiesa incompiuta dal 1882. Dall’interno si nota la meraviglia di certe curve che volano verso il cielo, guglie sottili, costruzioni esagerate ma, appunto, incompiute. Un po’ come il nostro cammino sulla terra: bellissimo ma imperfetto. Come anche il gioco del calcio che qui si fonde con il paesaggio di uomini e cose: da Gaudì a Joan Mirò e uno spruzzo di Picasso. C’è sempre qualcosa da sistemare in questa città apparentemente perfetta, dispensatrice di colori e di umori. E di musica e lingua catalana, così diversa dal castigliano e così lontana dall’essere spagnolo. Barcellona è un’isola bagnata solo una parte dal mare, almeno apparentemente. Ma quando ci vai e cominci a camminare sulle strade e sulle cose capisci subito che c’è uno spirito diverso dalla sua odiata capitale Madrid: non c’è regalità, sontuosità, acqua che zampilla. A Barcellona è tutto più rotondo, più morbido e anche più anarchico. Fu sempre contraria al re ma ne incoronò moltissimi. Tutti laici: da Gaudì, a Picasso, a Mirò, da Augustì Duran a Manuel Vasquez di Montalban. Parole e colori passando per il pallone. Perché di questo si tratta: Barcellona città e Barcellona squadra di calcio: due perfezioni imperfette. Al Barça ci son passati in tanti da Cruijff ad Neeskens, Romario, Figo e Rivaldo, Maradona e Ibrahimovic, due imperatori che non regnarono a lungo. Perchè il Barça accetta solo direttori d’orchestra che sappiano utilizzare il coro e questo, Lionel Messi, lo sa fare molto bene. Lui è la trasposizione perfetta di tutte le contraddizioni della città: piccolo ma imprevedibile, unico e diverso, solitario e adatto al gioco corale. Con lui e per lui il Barcellona ha vinto tutto. Si appresta, eventualmente a rifare il giro: campionato, Coppa del Re, Champions e Campione del mondo a squadre. Si replica. Gli altri permettendo. Quando cominciai ad amare il Barça avevo sedici anni. Poi, nel 1978 riuscii a vedere la squadra che giocò allo stadio Mariotti di Alghero, contro il Bastia. Quell’anno lo scudetto lo vinse il Real e lei arrivò seconda. Trasmettevo in una radio libera e per noi l’avvenimento era davvero eccezionale. L’allenatore era un certo Michels, per me, allora, un perfetto sconosciuto. Dei giocatori ricordo il portiere Artola, il difensore Migueli e, soprattutto, Johan Cruijff il profeta del gol o, come venne ribatezzato da Gianni Brera, il Pelè bianco. Lui era il Barça, lui era il Messi di oggi, lui era quello che fece svoltare una squadra sempre schiacciata dal Real Madrid. Nel 1982, quando noi con la Nazionale italiana dipingemmo d’azzurro la Spagna con la nostra terza stella mondiale, approdò a Barcellona un giovanissimo Diego Armando Maradona e con lui, a fine campionato, Anche Cesar Luis Menotti per allenare un Barça che arrivò solo quarto. Durò un altro campionato Diego. I colori del cielo di Barcellona non erano i suoi. Aveva bisogno di curve più strette e di salite impossibili. Approdò a Napoli per dimostrare di poter vincere insieme a chi non aveva mai vinto nulla. Barcellona guardò con una certa sufficienza la parabola del pibe de oro nella sua città, tra le ramblas e le corride. Pareva un quadro di Joan Mirò: molti colori e molta tecnica ma probabilmente incomprensibile. La squadra e la città si fondono, come d’incanto tra il rumore del Barrio e il mare. Chi ne scrive (da Montalban a Zafon, passando per la Barlett) ha sempre piccoli spunti di felicità, mista alla giusta dose di malinconia. Si vince con garbo e con voglia di farlo. Come per questa finale che non è, come qualcuno pensa, una passeggiata. Non si passeggia nei campi di calcio e non ci si distrae. Si può sfuggire e segnare gol incredibili alla Messi, ma può accadere anche di prendere quelli pensati ed intellettuali alla Pirlo. Bisognerebbe esserci a Berlino per vedere questa finale. Un po’ perchè la città merita due squadre molto diverse tra loro e un po’ perchè in tribuna c’è finito il Bayern di Pepe Guardiola e anche il Real Madrid, uccellato, come avrebbe scritto il grande Gianni Brera, proprio dalla Juventus. Non si arriva alla finale di Champions per caso. Possiamo costruire mille congetture ma la strada è contorta, degna di un quadro cubista di Picasso. Domani sarà una bella giornata per lo sport: c’è il Barça e c’è la Juve. Ci sono due città completamente diverse e due squadre con anime complesse, ma con lo stesso cuore che pulsa ed ansima. Chi arriva in finale, quella finale la vuole vincere. Perchè poi la storia delle seconde e dei vice campioni la ricordano solo i tifosi e ci rimangono male. Nel 1970 e nel 1994 il mondiale lo vinse il Brasile. I secondi, sempre l’Italia, è un ricordo che ci riporta a Pelè e al rigore di Baggio. Le finali sono sempre una sportiva resa dei conti, una visione di gioco e di mentalità tra due squadre che intendono, entrambe, alzare la coppa. Il Barça ha dalla sua anche la musica: la stupenda Barcellona dei Quenn. Torino non ha, che io ricordi, suoni che la contraddistinguano, ma tutto può accadere. Come in una partita di calcio dove le due formazioni, prima del fischio finale, sono perfettamente disposte in campo. Poi l’arbitro fischia e la palla si muove a cercare poesia, velocità e vittoria. Come un pasticciato quadro di Mirò. Buona partita a Francesco Giorgioni, grande tifoso della Juve e a tutti voi. Che la sfida possa cominciare.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design