Ieri c’è stata una partita di calcio, ad Udine, con un paio di decisioni arbitrali contestate. Un goal assegnato alla Roma che neppure moviola e il meglio delle simulazioni al computer hanno saputo dimostrare se goal fosse davvero, perché non s’è capito se la palla inzuccata dallo stopper Astori avesse o meno oltrepassato la linea di porta. Poi, a pochi minuti dalla fine, il terzino della Roma Emanuelson ha scalciato in area di rigore un attaccante dell’Udinese, ma l’arbitro non ha concesso il penalty. Quella sera stessa, nel primo tempo della partita tra Juventus e Inter il difensore Jesus ha tirato una gomitata tra i denti a Chiellini, in area da rigore e con palla in gioco. L’arbitro non ha fischiato, neppure stavolta. Oggi i quotidiani sportivi accennano blandamente a questi episodi, ma titolano su altro. Smorzano i malumori, li nascondono in mezzo agli articoli senza promuoverli a polemiche. La contestazione agli arbitri non è la notizia della giornata. Èd è giusto così, così dovrebbe essere sempre.
Come mai troppo spesso si ripete, gli arbitri devono decidere in un attimo su complesse azioni di gioco, dove il giusto e l’ingiusto sono di frequente separati da pochi millimetri, spazi impercettibili anche al più attento dei direttori di gioco. Il calcio è, alla fine, ventidue giocatori che si contendono una palla su un prato. Un uomo deve cercare di applicare il regolamento, interpretandolo e magari sbagliando. L’errore dell’arbitro fa parte dei mille fatti di gioco di una sfida sportiva, come gli strafalcioni dei singoli calciatori, come ciascuno delle migliaia di scatti, pensieri, azioni di un match. O si entra in quest’ordine di idee o gli stadi seguiteranno ad essere luoghi di odio, dominati dai più primitivi istinti di sopraffazione. Torniamo alle partite di ieri e tralasciamo le dubbie decisioni arbitrali. Un osservatore onesto deve ammettere che la Roma ha, sul campo, meritato la vittoria contro l’Udinese, così come l’Inter ha assolutamente meritato il pareggio sul campo della Juventus. Roma e Inter hanno giocato ottime partite, guadagnandosi il risultato.
Passiamo ora alle ipotesi. Poniamo che, sul campo di Udine, ieri fossero successe le stesse cose, ma al posto della Roma avesse giocato la Juventus. Mettiamo che alla Juventus l’arbitro avesse concesso un gol dubbio e risparmiato un rigore a sfavore.
Ecco, in quel caso trovereste quotidiani che strillano al campionato falsato, insinuano, rilanciano interrogazioni parlamentari del solito deputato sfaccendato, sputano veleno sulla giacchetta nera e alimentano il secolare pregiudizio: fanno vincere la Juventus perché è tutto già deciso per farla vincere, perché la Juventus è il potere cui chi decide sul campo deve soggiacere. Del goal non goal di Astori ci dimenticheremo tutti stasera. Invece quel cross entro o oltre la linea dal fondo che favorì il goal annullato di Turone – Juventus-Roma dell’anno 1981, credo – viene ancora ricordato come un clamoroso esempio di ingiustizia, un mistero irrisolto dell’Italia repubblicana. E tenete conto che non si è mai stabilito se la palla fosse in gioco o meno, in quell’azione di quella partita del lontano 1981. Della gomitata di Jesus a Chiellini già non ci ricordiamo più, invece del presunto fallo in area di Juliano a Ronaldo, anno 1998, ci si ricorderà per sempre.
Mi son sempre chiesto: perché la Juventus calamita questo odio, perché rappresenta così potentemente il furto, l’imbroglio, anche quando è chiaro a tutti che i benefici e i danni dagli errori arbitrali sono alterni e casuali? Perché un gioco in cui ventidue giovanotti rincorrono una palla occupa uno spazio così sproporzionato nelle nostre vite? Semplice: perché il campo da calcio è il luogo in cui si svolge la nostra vita. La nostra squadra è la nostra vita, il goal diventa la realizzazione dei nostri desideri.
Ma nella vita, per quanto si possa essere felici e realizzati, incontri sempre qualcuno più bravo di te, qualcosa va sempre storto anche in una giornata soddisfacente, certe tue aspirazioni non si realizzano perché non sei stato abbastanza capace, per pura sfortuna o, magari, perché le tue qualità non vengono abbastanza apprezzate.
C’è sempre un capufficio stronzo che ce l’ha con te, un vigile urbano che ti multa perché gli stai antipatico, un esattore del Fisco che ti cerca perché, lo sappiamo tutti, è più facile fustigare l’uomo qualunque anziché i grandi evasori. C’è sempre un potere che ti sovrasta e ti toglie con l’inganno o l’arroganza quel passo che ti manca per arrivare alla felicità.
Eccola, l’insostituibile importanza sociale della Juventus. La Juventus è ancora oggi il volto dell’avvocato Agnelli, potente e antipatico, il simbolo dei simboli di chi coi soldi può comprarsi tutto, l’industriale che alle sette faceva colazione a Torino e a mezzogiorno pranzava a New York, il rampollo che pagava i suoi vizi dallo sfruttamento degli operai nelle fabbriche di veicoli inquinanti.
Certo, potentissimo è anche il Berlusconi presidente del Milan e da sempre potentissimi sono i petrolieri Moratti dell’Inter, ma nessuno di loro appare così lontano dall’uomo della strada come l’avvocato Agnelli. Perfetto, in quel ruolo.
E quando la tua squadra, la tua vita, incontra quella in maglia bianconera dello stronzo industriale onnipotente, la tua squadra spesso perde. E perde perché il potere dello stronzo industriale è tale da falsare il risultato. Non vince perché ha Scirea, Zoff, Paolo Rossi, Sivori, Platini, Zidane, Baggio, Del Piero, Pogba e Tevez, non vince perché ha un potere economico tale da scritturare tutti i migliori giocatori ma vince perché si compra gli arbitri, regala loro auto di lusso e se li ingrazia attraverso l’opera di loschi personaggi come Moggi (che losco personaggio lo era davvero, ma che nessuno ricorda mai essere stato anche direttore sportivo del Torino, del Napoli e della Roma). Quando la tua squadra vince, invece, lo sport ha trionfato e, in fondo in fondo, concludi che nel mondo un briciolo di giustizia ancora esiste.
Ed ecco che quel che nella tua vita non funziona, ma non sai spiegare esattamente perché non funzioni, nella sua proiezione sul campo da calcio sembra avere cause ed effetti dalla dinamica elementare. È tutto molto più chiaro, se guardi alla vita come ad una partita. Un potente dallo snobismo insopportabile, un arbitro corrotto da insultare liberamente, una ragione facile facile per spiegare come mai i desideri non si realizzino e quel goal non arrivi. Abbiamo tutti una certa quantità di rabbia da liberare, come un quotidiano bisogno corporale. Quell’odio che si convoglierebbe sul capufficio, sul vigile urbano, sull’esattore, trova in questo modo sfogo sul nemico in pantaloncini corti aiutato da un calimero nelle mani del potere. Eccola, ancora una volta, la funzione sociale della Juventus.
Non hai da scomodare le tue colpe o i meriti degli altri, è tutto un imbroglio. Non hai da considerare che per quell’avvocato con l’orologio sul polsino (perché allergico ai metalli, ma è solo un dettaglio) giocano in squadra figli di operai, di immigrati, di gente della più bassa estrazione sociale, giovanotti nati col talento del calcio. Come in tutte le altre squadre del mondo, del resto. Gente che sul campo corre e suda, perché sul prato verde si corre e si suda e le azioni si svolgono sotto gli occhi di migliaia di persone, non nelle buie stanze del potere dove si organizzano le congiure e pare si decida dei nostri destini.
Il pregiudizio dell’ingiustizia diventa così un elemento fondamentale dello sport e assorbe l’energia dell’indignazione popolare, sottraendola a quella che si potrebbe indirizzare verso i guasti e le iniquità di altri e ben più importanti campi dell’azione umana. Non abbiamo tempo per la rivoluzione, adesso dobbiamo occuparci della moviola in campo! I giornali vendono di più se titolano su un rigore fischiato alla Juventus, le tribune sportive battono i record di audience se all’ordine del giorno c’è la sudditanza psicologica. Un allenatore o un presidente possono più facilmente spiegare una sconfitta, se si evocano la macchinazione ed il potere. Così, quelli per cui quasi tutto è un imbroglio si sentono molto rassicurati. Solo che la vita non è un campo da calcio.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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