Passeggiava volentieri, da solo, per la città, e si guardava intorno. Non gli piaceva immaginarsi dentro le case, ma guardare dal di fuori, di sotto in su, attraverso le finestre aperte.
(Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, pag. 46)
Mi è sempre piaciuto, a scuola, il giorno del “tema d’italiano” e non so se ancora oggi c’è qualche docente che continua a farlo svolgere con le classiche tre tracce. Avevo un professoressa che ritenevo e ritengo illuminata. Perché dopo le tre tracce canoniche – una di letteratura, una storica e una di attualità – aggiungeva, quasi sempre, il tema a piacere. Che per molti era l’ultima spiaggia. Non ero, chiaramente d’accordo. Ma l’ultima spiaggia serviva – e la mia professoressa furbescamente lo sapeva – per permettere allo studente che non si riconosceva in nessuna delle tracce a sceglierne una quarta, diversa, intimista che avrebbe obbligato il ragazzo a misurarsi con la classica “pagina bianca”. Quando vi era la possibilità del tema a piacere ero chiaramente felice perché potevo giocare con la mia creatività, potevo giocare con le parole, potevo “inventare” la mia traccia, unica e irripetibile. Potevo, dunque, enfatizzare il mio narcisismo adolescenziale.
Quasi sempre, il mio “tema libero” si chiamava semplicemente “guardando dalla mia finestra”. Questo per restituire un favore alla mia maestra che mi aveva regalato una bella visione su questa suggestione apparentemente semplice: “Salgari, quello delle tigri di Mompracem, non si è mai mosso dall’Italia ma guardando dalla finestra è riuscito a costruire un mondo reale o comunque verosimile”.
Guardare dalla propria finestra è un’opportunità. Si possono chiudere le persiane o abbassare le tapparelle, se si vuole (o se si crede). Si può svolgere lo sguardo verso un infinito di leopardiana memoria oppure si può delimitare il campo, guardare nel proprio condominio, un po’ come il film “la finestra sul cortile” o delimitare il campo ad un giardino come nel “caos calmo” di Veronesi.
Guardare dalla propria finestra è una necessità. Perché abbiamo il desiderio intrinseco di costruire nuovi orizzonti, di spostare i traguardi, per scoprire interessanti novità. E perché, intimamente, speriamo che qualcosa, prima o poi, si possa modificare. Aspettare un autobus che passi e osservare la gente che scende, magari frettolosamente, con pochi pensieri forti e piccole certezze composte alla rinfusa. Attendere che qualcosa accada, due ragazzi che si cercano e si ritrovano ansimanti e docili, un cane che ricerca il proprio padrone, un auto che corre dentro un asfalto inumidito dalla pioggia e dagli umori.
Guardare dalla finestra è costruire un mondo e non una società. E’ tentare di tradurre i gesti, è riuscire ad analizzare, seppure superficialmente, i rumori che gli uomini producono. Da sempre. Guardare dalla finestra è un gioco, un elenco innumerevole di storie, di attimi, di rumori e di silenzi, una fisarmonica di affetti.
Così, ripercorrendo Leopardi e Salgari e il mio ricordo che va affettuosamente alla mia maestra e alla mia professoressa delle superiori mi appoggio, con piccoli sussulti, ad osservare dalla mia finestra.
Guardando dalla mia finestra: Svolgimento.
Ho avuto abbracci superflui di parenti oggi sconosciuti, ho visto un bambino con le ginocchia sbucciate rialzarsi senza piangere. Ragazzi che scambiavano figurine e giocavano a piattini “creus e crastu”; bambine che saltavano unduetrestella, una madre che rincorreva un ragazzino vivace, un padre che parcheggiava una 850 lucida e la osservava con orgoglio, con amore, niente a che vedere con quello che aveva riversato stancamente alla moglie e ai figli. Poi la rossa che sfrecciava dalla mia finestra. Una rossa che si portava dentro Niki Lauda, la rossa che era amore, passione, dolcezza ruvida, ossimoro struggente di un idillio mai superato. E Caterina con il grembiule bianco e il fiocco rosa che piangeva quando qualche bambino tentava di sciogliere il grande fiocco. Poi una finestra che si arricchiva di tendine, per paura di vedere quello strano orizzonte. Uomini incomprensibili che decidevano di partire per una guerra mai dichiarata ad uno Stato che non aveva capito e non era in grado di gestire. Silenzi ruvidi e dinieghi di facciata o di paura, uomini che non erano in grado di scegliere e di crescere. Pugni in tasca di ragazzi solitari che non avevano canzoni da ricordare e si inventavano ritornelli inutili e senza rima, fuggendo dal mio sguardo molto velocemente. Ho anche chiuso le tapparelle molte volte. Quando non volevo che entrassero fantasmi evanescenti che distruggevano il mio futuro. Passavano voci e luci e occhi e sorrisi e pianti dalla mia finestra. Stasera sono stanco. Vedo uomini senza volto che mi passano davanti. Penso siano i miei occhi a non avere l’orizzonte lucido. Ed invece sono i loro contorni a non restituire identità. Per quanto diversi e apparentemente con differenti idee, hanno lo stesso e strano volto senz’anima. Guardo dalla mia finestra il mio orizzonte mutare. Passano molte cose che si mischiano con le foglie che lentamente cadono. Regalano un autunno che porterà ad uno strano inverno. Socchiudo le tapparelle lasciando piccole fessure per colorare la mia stanza. Ritornerà la primavera, si riaccenderà di colori forti il nuovo confine. Fidiamoci degli sguardi e dell’attesa che produce vita. Fidiamoci delle parole e di una finestra che è mondo, ed è, come suggeriva Pasolini, disperata vitalità.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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