L’ingegner Maramau per una manciata di increduli secondi mantenne gli occhi sbarrati sulla copertina del fascicolo. Poi l’usciere in corridoio udì l’urlo stridulo: “No, questo mai!”.
Il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Occaso era un omino rotondo dai vecchi occhiali dorati che sollevava sul cranio desolato quando doveva incollare i suoi occhi malandati al foglio di carta, per riuscire a decifrarlo. A dire il vero qualche lungo ciuffo resisteva ancora e la signora Maramau lo implorava: “Almeno rasati del tutto, che ora va anche di moda. Con quei pennacchi che ti spuntano qui e là, sembri anche sporco”. Che tutto era, l’ingegner Maramau, tranne che sporco: dentro e fuori. Doccia mattina e sera e d’estate anche dopopranzo, le poche volte che riusciva a pranzare in casa. E dentro, più rigido di un dodicenne alla sua prima pomiciata con la compagnetta. Rigido sul piano morale, si intende. A un anno dalla pensione, neppure un avviso di garanzia. “Che sarebbe come non essersi preso un divieto di sosta in quarant’anni di patente”, gli aveva detto una volta ridendo il collega di un altro Comune, che invece se n’era andato a riposo carico di onori e che ora trascorreva il tempo tra Procura e avvocati. L’ingegner Maramau aveva fatto un sorrisino tirato e si era tenuto quello che pensava: “Sì sì. Ma non è proprio di divieto di sosta che accusano te”. Non che fosse un moralista. Anzi, se c’era da fare saltare la fila a un amico, ricevere un raccomandato e dargli buoni consigli, cose così, ci mancherebbe. Ma niente di più. Paura? Incapacità di navigare? Fanatismo religioso? Macché! A leggi e regole si ubbidisce e basta. L’ingegner Maramau era fatto così. E per questo tutti lo rispettavano, anche quelli che lo temevano. Cioè quasi tutti. Così, quando l’usciere udì quel “No, questo mai!”, immaginò i gradi successivi dell’evento: sputtanamento del sottoposto sospettato, denuncia e rimozione. Quindi era già pronto quando l’ingegner Maramau sporse la testa e gli ordinò: “L’architetto Spallanzani. Gli dica di venire da me su-bi-to!”. L’usciere si alzò lento e si diresse a passo strascicato verso il corridoio dei tecnici istruttori borbottando: “Ah dunque è Spallanzani, il bustarellaro. Strano, mi sembrava un coglione”. Eh già. Perché il brav’uomo non nascondeva una certa ammirazione per quelli che ci sapevano fare. L’architetto bussò dopo pochi minuti con una certa apprensione. Istruito dall’usciere che con sorriso complice gli aveva detto dell’umore del capo, si era preoccupato. Anche per il sorriso complice. Ma dall’intenso esame di coscienza compiuto nei pochi minuti di tragitto da una stanza all’altra, non era venuto fuori niente. “Entri e chiuda la porta”, gli intimò gelido l’ingegner Maramau. Poi, senza neppure invitarlo a sedersi, porse il fascicolo con mano impaziente al giovane professionista che non osava avvicinarsi al tavolo: “Lo prenda, perdio! E’ roba sua?”. Il professionista scorse la copertina, guardò all’interno, poi rispose esitante: “Sì, penso di sì”. “Cosa vuol dire ‘penso’? Questa pratica l’ha istruita lei o no?” “Sì, ingegnere. Ma che cosa…” “E ha espresso parere formale?” “Sì, perché mi sembrava che…”. “Quindi è tutto regolare?”, incalzò il dirigente. “A dire il vero ho pensato che…”. “Legga l’intestazione”, gli ordinò brusco. “Domanda di ampliamento, legge regionale numero …” “Non mi interessa, continui!”. “Presentata da …” “Qui, qui, perdio! – urlò l’ingegner Maramau balzando come una lince dalla scrivania e strappando il fascicolo dalle mani dell’architetto – Legga qui”. “La località?”. “E cosa, altrimenti?”. “In loc. S. V. … cioè strada vicinale…” “Lo so cosa vuole dire – ululò l’ingegnere – E come si chiamerebbe secondo lei questa strada vicinale?”. Spallanzani allora capì. E divenne di un pallore mortale: “Ecco, non secondo me … vox populi…” “Come si chiamerebbe?”, ripetè l’ingegnere colpendo il petto dell’architetto con il fascicolo, ciò che lo costrinse a rizzarsi sulle punte dei piedi. “…ada d… sci”, mormorò il ragazzo fingendo di leggere il nome per la prima volta. “Non ho sentito bene”. “Farada di li frosci!”, confermò con decisione l’architetto e fissò il suo dirigente con fieri occhi da martire. Come a dire: “E ora uccidimi” . L’ingegnere tornò dietro la scrivania, sfogliò per un po’ la pratica a testa china, pensando più che leggendo, e infine chiese: “E le sembra il caso di mandare avanti una pratica con una intestazione simile?”. “Ma si chiama così, ingegnere. E’ il classico microtoponimo di etimologia popolare che…” “Microtoponimo un …”. L’ingegnere riuscì a bloccarsi e con voce fredda continuò: “Architetto, io la conosco. Lei è quello che con la sue teorie sulla toponomastica ha coperto di ridicolo tutti i terreni lungo la Bori Bori, di qui al mare. E anche questo ufficio, ha coperto di ridicolo”. “Ma io, ingegnere…”. “Io cosa? Chi è che la settimana scorsa ha approvato o respinto, comunque mandato avanti cinque, dico cinque!, pratiche in loc. Bar Marinella?”. “Non vedo cosa…” “Ah, non vede? Non loc. Marinella, che sarebbe comprensibile, ma loc. Bar Marinella”. “Ma è proprio così che la tradizione popolare chiama quella zona. Secondo le mie ricerche, anzi, la fondatrice del bar, quattro generazioni fa, non si sarebbe chiamata Marinella ma Lucia Elena Fiorita. Quindi non è una persona, ma proprio il locale a dare nome alla località”. L’ingegnere lo stette a sentire in silenzio esterrefatto. Poi aprì due o tre volte la bocca a vuoto e infine riuscì a chiedere: “E sulla cosa… la Farada … che studi ha fatto?”. “Sono contento che me lo chieda – rispose l’architetto ritrovando coraggio e sedendosi davanti al capo pur senza invito – Dunque, da almeno settant’anni, cioè a partire da periodi di violenta repressione religiosa e culturale, quando alcuni omosessuali usavano recarsi…”. “Fuori, fuori di qui!”, lo interruppe con un barrito l’ingegnere, scagliando la pratica contro la schiena dell’architetto mentre questi guadagnava svelto la porta. Quando all’ora di pranzo uscì diretto al vicino bar per un panino, l’ingegnere capì subito che l’usciere aveva incollato l’orecchio alla porta del suo ufficio. E aveva già messo tutti al corrente. Se ne accorse perché la spia appariva come l’unico dedito al suo lavoro (le Parole crociate senza schema, la Pagina della sfinge, l’Edipeo enciclopedico e Forse non tutti sanno che), mentre sugli altri aleggiava un’aria frizzantina che li faceva strani. L’anziano architetto Carnelutti fu anzi protagonista di un fenomeno impressionante: al passaggio del dirigente cercò di salutarlo con deferente cordialità, poi il suo viso cominciò a gonfiarsi, ma non solo le gote, anche la fronte, il naso, gli occhi e sarebbe scoppiato se una risata sibilata, vanamente trattenuta ma continua e sussultante, non lo avesse liberato di tutti gli umori compressi. Risata contagiosa, che echeggiò dietro le porte, gli angoli dei corridoi, lo scalone, negli apparecchi telefonici e che inseguì l’ingegner Maramau sino al bar, dove il barista, presa l’ordinazione gli propose: “Per il panino abbiamo anche certi finocchietti saltati che… scendono che è una meraviglia”. E giù a ridere con la cassiera e gli altri avventori con i quali aveva evidentemente preparato il colpo. Al ritorno in ufficio, l’ingegnere andò di persona in archivio e tornò nella sua stanza carico di una cernita di pratiche istruite da Spallanzani.. Tutti i… come diavolo si chiamavano?… microtoponimi di etimologia popolare che quel disgraziato aveva accettato, approfondito e – l’ingegnere sospettava – anche sollecitato, erano diventati nomi formali di luogo. Per cui la trafficatissima Bori Bori che univa la città di Occaso al lungo e popolare litorale di Hawaii, ai bivi era un fiorire di cartelli indicatori inconsueti: quasi ancora in periferia si cominciava con “S. V. La Casa di li Bagassi”, per proseguire dopo duecento metri con “Regione Baddi di lu Troddiu”. Il più modesto “Loc. Bar Marinella” (zona tra le più abitate) era incastonato tra un “S. V. L’Aiburu di lu Pindacciu” (località disertata) e un enigmatico “S. P. Bori Bori – Traversa Nudu Nudu”. Tutti appellativi che avevano ricevuto il crisma della legalità grazie all’appassionata ricerca filologica di Spallanzani. Come bloccare quel pazzo furioso?, si chiedeva l’ingegnere, quando sentì bussare e l’usciere si presentò senza attendere l’avanti. “C’è il sindaco al telefono, glielo passo?”. “No, lo tenga in attesa per trenta minuti. Ma certo che me lo deve passare, sono domande da farsi?”. “Chiedere è lecito, rispondere è cortesia”, commentò l’usciere che lo aveva appena letto nella rubrica “Motti celebri”. “Ma non faccia il buffone. E, a proposito, un’altra volta si faccia i fatti suoi”. “Cioè?”. “Ci siamo capiti. E ora mi passi la telefonata”. L’ingegner Foca e l’ingegner Maramau erano nati nello stesso giorno. Si erano conosciuti in prima elementare: entrambi miopi e grassocci, avevano fraternizzato e si erano fatti le ossa nella dura vita di strada del centro storico. In prima media, schiena contro schiena, avevano tenuto a bada una banda di bulletti di terza che, ai primi pugni in faccia erano rimasti disarmati e piangenti davanti alla determinazione dei due bambini apparentemente innocui. Avevano studiato insieme sino alla maturità classica e avevano entrambi scelto Ingegneria. Per Maramau laurea, concorso e carriera al Comune. Foca aveva scelto la libera professione. E la politica. Come il suo amico di infanzia, era fortemente progressista, ma al contrario di Maramau amava manifestare le sue idee. Non era la prima volta che faceva il sindaco di Occaso. Aveva sempre vinto a mani basse. E a ogni mandato c’era la spiacevole questione dei rapporti con l’alto funzionario comunale. In privato si confidavano ogni cosa, in pubblico Maramau si ostinava a dargli del lei e negava con chiunque di avere antichi legami con il primo cittadino. “E’ una questione di forma e di correttezza”, gli spiegava. “Ma quale correttezza! – sbuffava Foca – Lo sanno tutti che siamo amici. Così copri entrambi di ridicolo”. E a proposito di ridicolo, l’ingegnere non si stupì più di tanto quando Foca, dopo il consueto “Ciaumaramau”, aggiunse ridendo: “Senti, cos’è questa faccenda della Farada di li Frosci?”. “Usciere maledetto”, borbottò il funzionario. “Come dici?”, chiese il sindaco. “Nulla, nulla. E’ che quel pazzo di Spallanzani ha colpito ancora. Sai, la Valle dello Scoreggio non gli è bastata”. “Ah, ah! E neppure la strada vicinale Abitazione delle Prostitute. Quindi vedremo un nuovo cartello stradale sulla Discesa degli Omosessuali”. “No, sindaco! Questo ce lo risparmiamo”. “In che senso?”. “Nel più lineare. Ho bloccato la pratica sino a quando quell’area non verrà definita in maniera più acconcia e formale”. “E allora sbloccala”. “Che cosa?”. “La pratica. Dai retta, Maramau, sbloccala”. “Ma cosa dici, perché dovrei?”. “All’ufficio stampa si sono rivolte già tre testate. Una di fuori. Chiedono notizia su questo caso di omofobia”. Maramau vide la stanza perdere colore. Sembrava che qualcuno gli stringesse la gola. “Maramau, mi senti? Cos’hai?”. “Ma, ma… – riuscì a dire – Omofobo a me? Che mi sono sempre schierato anche quando era difficile…” “Maramau, poche storie. Lo so chi sei e tu sai chi sono io. Però sappiamo anche la superficialità con cui certa stampa tratta certi temi. Cercano di inseguire Facebook, anziché prenderne le distanze. E uno scandalo del genere rischierebbe di annullare il fatto che siamo stati il primo Comune della Nazione a riconoscere i matrimoni omosessuali celebrati all’estero, infischiandocene degli ordini governativi”. “Appunto. E sai quanto sia d’accordo. Ma quel nome è offensivo e quella zona viene chiamata così per antico e sorpassato disprezzo popolare”. “D’accordo, ma i giornalisti dicono che “Frosciu” è la semplice traduzione dialettale di “Omosessuale” e che quella zona era una specie di porto franco dove i gay erano tollerati anche in tempi bui”. “Ma non è vero! Se facciamo passare quel toponimo offendiamo tutti gli omosessuali”. “Sono buone ragioni. Allora esponile tu ai giornalisti e stasera vieni in consiglio a rispondere alle interrogazioni di quelli della destra, che pur di rompere le balle ora si inventano pure difensori dei diritti civili”. “Ma io…” “Ciaumaramau!” e il clik impietoso del telefono troncò ogni disperata obiezione. L’ingegner Maramau trascorse lunghi minuti con il capo chino sulla scrivania. Poi sollevò la cornetta, guardò un foglio con i numeri interni e ne compose uno: “Architetto, venga da me per favore. E porti con sé la pratica “La Farada di li Frosci”. E nessuno, neppure quel giorno, né l’incorruttibile Maramau, né l’intraprendente architetto filologo Spallanzani, né l’indaffarato usciere, aprì la pregiata edizione del Vocabolario Sassarese-Italiano di Vito Lanza, che prendeva polvere da trent’anni nella piccola libreria dell’Ufficio Tecnico. E dove a pagina 96, se la rideva il vocabolo “frosciu”, il cui secondo e più antico significato è semplicemente “zoppo”.
Tutti i personaggi e le circostanze sono frutto di fantasia. Anche quasi tutti i luoghi. A parte quello del titolo e alcuni altri. Che in qualche parte del mondo esistono davvero.
pubblicato il 16/5/2015
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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