La doppia preferenza di genere, in discussione in questi giorni in un Consiglio Regionale che presenta solo quattro donne su sessanta consiglieri, è una di quelle questioni che finisce per perdersi durante il percorso di trasferimento dal problema sociale alla soluzione politica. I valori di principio si scontrano nel muro della politica reale, che oggi è quella che è, travolta dall’individualismo di questi tempi. Così la doppia preferenza, una per genere, finisce nella pratica politica per confinarsi nell’agone elettorale, nella volontà di sopraffazione, nella mera conquista del seggio. E non hanno torto quegli osservatori che mostrano gli esiti, laddove vi sono stati, di dispositivi legislativi per favorire l’ingresso femminile nelle istituzioni: risultati per certi versi non all’altezza delle aspettative. In questi giorni, per vari motivi, il dibattito “femminista” è tornato in agenda. Purtroppo, secondo me, i meccanismi dell’agenda sono perversi, e al centro finisce il torbido, ovvero la banalizzazione del dato. Allora, l’outing di questi giorni, con tante donne che hanno svuotato il sacco, denunciando i loro carnefici veri e presunti, hanno finito per provocare, persino, una sorta di crisi di rigetto. La discussione si riduce all’aspetto dirimente, tra le donne che ci stanno e quelle che non ci stanno, e l’etica del personale finisce per oscurare il problema sociale. Che resta, fondamentalmente, questo: è giusto che una donna, ad un certo punto della sua carriera, qualunque essa sia, debba rischiare di trovarsi di fronte ad una scelta che, con le proprie qualità professionali o artistiche, non c’entra nulla? Che giustizia, che meritocrazia esiste di fronte ad una situazione in cui è discriminata la donna che non accetta la mercificazione del suo corpo e dei suoi valori? Soprattutto, quale costo sociale implica questa situazione? Torniamo al nostro piccolo, al nostro Consiglio Regionale. Io comprendo chi sostiene che la preferenza di genere non sia altro che una forzatura. Comprendo ma, nello stesso tempo, proverò a dire in due parole perché secondo me è importante che ci sia. Comprendo, perché, come abbiamo visto, gli esiti, specie all’inizio, non potranno che essere insoddisfacenti. E’ stato notato che, in questi casi, è comunque la politica “al maschile” a prevalere, e quote rosa o doppia preferenza si declinano in una spartizione di potere che include donne che, tuttavia, non rappresentano la politica “al femminile”. La spartizione, infatti, assume le sembianze di un compromesso: emergono le donne che si adeguano al paradigma del mondo maschile. Finché resiste il paradigma maschile, al suo interno non potrà che formarsi una classe politica di donne che, in gran parte, ne riproduce i vizi, i modi, le forme, persino il linguaggio, persino una certa aggressività. E certamente non aiuta, sotto questo auspicio, il femminismo mediatico, quello dell’agenda, che sembra più uno scontro su un terreno comune, un teatro di guerra dove è la conquista delle posizioni, l’occupazione delle caselle, lo strappare una parola al femminile, l’obbiettivo. Un gioco sociale che, come quei giochi di società dove si guadagna terreno o si conquistano caselle, rendono sul piano della percezione. Conquistare terreno, una parola al femminile, un seggio in politica, rende l’idea di una bandierina piantata sulla soglia del maschilismo. Evviva. In realtà il terreno di scontro non è cambiato, e le regole del gioco sono sempre quelle, imposte dal mondo maschio. Quindi è chiaro che se le regole sono sempre quelle, la lotta si manifesterà come uno scontro tra un potere maschile e le rivendicazioni femminili. Ma quello di cui si ha bisogno non è un gioco di bandierine, ma una società libera e pluralista, dove il pensiero femminile si mescoli a quello maschile per realizzare un mondo migliore. Significa che le donne devono entrare in politica, anche forzatamente, per fare questo. Torniamo al vizio di fondo, dunque. Le donne entrano in politica, ma dentro un paradigma maschile. Quindi chi entra, è venuto a patti con gli uomini che comandano. Ciascuna col proprio padrino maschio, insomma. E ciascuna declinata, nelle sue scelte politiche, al maschile anziché al femminile. Tuttavia, senza forzatura non ci sarà prospettiva. Senza una forzatura, che legittimi culturalmente l’importanza delle donne in politica, non c’è inizio. Chiaro che non si dovrebbe perdere di vista la prospettiva. E mi rendo conto del rischio di sostituire all’esigenza sociale di una società migliore lo scheletro fossilizzato di una prospettiva puramente ideologica: viva le donne e facciamo questa parità di genere, di modo che ci si senta tutti più bravi e più giusti. La fossilizzazione ideologica di facciata è anch’esso un rischio che, tuttavia, secondo me, vale la pena di correre. Quindi questi dispositivi sociali che favoriscono l’ingresso delle donne in politica, si possono configurare come esempio, come avanguardia culturale. Con il tempo la classe politica femminile troverà nuove modalità di reclutamento, e la presenza femminile, gradatamente, con pazienza, contribuirà a modificare il paradigma maschile corrente, trasferendolo dalla politica al resto della società, cosa di cui c’è abbondantemente bisogno.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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