Una delle cose che prima i colleghi anziani insegnavano ai praticanti e che ora si insegnano giustamente nelle scuole di giornalismo, è che “il pubblico italiano della politica estera se ne frega”. Era un po’ un luogo comune e un po’ una realtà, perché, anche con i rudimentali e più che altro intuitivi mezzi di rilevazione delle opinioni che avevamo in altre epoche, ci accorgevamo che un dramma passionale a casa del vicino spostava più copie vendute di un fatto politico a Bruxelles o a Washington, anche se i suoi effetti, in concatenazione, avrebbero potuto mettere in discussione l’esistenza stessa della casa del vicino e della nostra. Le cose mi sembrano cambiate e ho l’impressione che giornali e televisioni ne stiamo prendendo atto, stando al maggiore spazio dedicato ai fatti che avvengono fuori dai confini nazionali. In particolare negli Stati Uniti. Chi pensava che l’Italia di Salvini fosse un laboratorio mondiale di sovranismo e populismo sopravvalutava sia l’Italia sia Salvini. La Vecchia America (come diceva il quartetto Cetra), grazie a Trump torna a essere il centro del mondo e dell’interesse degli utenti dell’informazione. Gli Usa sì che sono un laboratorio, ma non più di sovranismo e populismo, che sono soltanto strumenti, ma proprio di dittatura, che è il fine delle predette categorie politico-sociali. E in maniera molto più preoccupante e pervasiva persino dei tempi in cui questi “esperimenti” avvenivano in Grecia, Cile o Argentina. Dittature che dietro avevano sempre gli Usa, Paese che però conservava al suo interno una solida democrazia, dandosi la contraddittoria immagine che ha conservato per grande parte del Novecento: esportatore di colpi di Stato e modello di libertà. Ma ora gli Stati Uniti, dalla Guerra di Secessione, non hanno mai vissuto un simile stato di caos, in questo caso apertamente causato e programmato dal potere in carica. Si provocano volutamente violenze e sommosse per indurre a desiderare un governo razzista e dal pugno di ferro. Ogni sentenza di tribunale che riguardi l’ordine pubblico assume un valore e un effetto di immagine politica, il diritto penale e l’osservazione oggettiva dei fatti sui quali questa sentenza si dovrebbe basare sembrano non esistere più. Se un poliziotto uccide un nero, il potere è contento per il disordine che ne nascerà. Se un nero durante questi disordini uccide un poliziotto, il potere ne è ugualmente contento perché potrà mandare altro esercito nelle strade. E così via in una progressione che alla fine, nel primitivo ed elementare ma forse efficace progetto politico, renderà gradito qualsiasi uomo, anche quello più ridicolo e immorale, e qualsiasi regime che promettano di riportare la pace con i ogni mezzo. Primo dei quali, naturalmente, è la guerra. Trump sta cercando di impossessarsi saldamente della Corte Suprema e ha già detto pubblicamente che se perderà le imminenti elezioni non accetterà la sconfitta e investirà questo organismo quando sarà da lui controllato. Cioè la negazione violenta dell’alternanza, in parole povere la dittatura. E tutto alla luce del sole: le manovre che prima erano affidate ai servizi segreti, pronti ad autodefinirsi “deviati” quando fossero stati scoperti, adesso vengono compiute su Twitter dal Presidente in persona. Sarebbe impensabile ora costringere un presidente alle dimissioni per una campagna di stampa del Washington Post in seguito a un caso di spionaggio politico. Acqua fresca, ai tempi d’oggi. Watergate, il mito del potere democratico dell’informazione nato negli anni in cui io cominciai a lavorare e che per questo non posso dimenticare, è ormai una marachella da bambini, come chiedere a un presidente di lasciare la carica perché gli è scappata una puzza in ascensore, fatto disdicevole ma che tutt’al più susciterà la preoccupazione dei pochi chiusi con lui nella cabina. Altro che spionaggio politico nella sede del partito democratico: se Trump ce la fa, sarà difficile che a quel partito venga permesso di continuare a esistere. Ma ci sarà un effetto positivo: quando gli Usa riprenderanno a esportare dittature qui e là nel mondo, non lo faranno più surrettiziamente, ci basterà seguire ogni giorno Twitter e sapremo se domani qualcuno busserà alla porta per chiederci gentilmente di recarci al più vicino stadio convertito in concentramento di prigionieri politici.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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