di Fiorenzo Caterini
Una corrente di pensiero ormai piuttosto generalizzata nelle scienze umane si risolve nell’immancabile critica all’identità, vista, da un canto, come una sorta di vulgata popolare folclorica priva di qualunque fondamento scientifico, d’altro canto come un artificio utile per i ceti dominanti a imporre il proprio dominio. Secondo questa prospettiva, recuperarla o potenziarla significa riprodurre quella “costruzione” artefatta, importando e addirittura introiettando il pensiero dominante.
Ne parla recentemente Giulio Angioni, ripreso successivamente da questo articolo di Bolognesi:
https://www.sardegnablogger.it/tra-il-fare-e-il-mare-trova-le-identita-e-le-differenze/
Insomma, l’identità è una invenzione, e dunque non esiste. E se esiste, è cattiva e criminale.
La generalità del mondo accademico, quindi, lo si può notare negli atti del “Seminario sull’identità, Cuec, 2007”, è concorde sul fatto che l’identità sarda è una costruzione, esattamente come quella degli stati nazionali, frutto di una mitopoiesi.
A questo punto, immancabili in tutti i convegni dove si critica l’identità, spuntano i Falsi d’Arborea, sempre quelli.
Un episodio che è diventato un po’ come le foibe per i fascisti, l’appiglio su cui aggrapparsi per sostenere una ragione che, a ben vedere, non ha molti altri sostegni.
Il sostegno principale alla critica identitaria, invero, è la rifunzionalizzazione del folklore, che proverebbe che l’identità è una roba artefatta, per turisti. A mio parere, si pensi alle ricostruzioni delle maschere etniche, esso prescinde dalla costruzione dell’identità. Le feste tradizionali e le carnevalate sono concepite, invece, per attirare un po’ di turisti, fatte le debite eccezioni per quei recuperi animati da sincera passione storica ed etnografica. Essa è una produzione della località per arrotondare l’incasso dei bar del corso.
Il pastore, quando fa il pranzo con i turisti, sa bene che quella è una sceneggiata, che quella non è la sua identità.
Sulla costruzione degli stati nazionali è stato detto molto, e ritengo di dover aggiungere solo un ragionamento sull’equilibrio.
C’è la costruzione dell’identità, di cui parlano Hobsbawn e soci, ma c’è anche l’origine etnica delle nazioni, di cui parla A.D. Smith.
E’ lecito intendere le identità nazionali sorgere all’interno di una complessa dialettica tra una componente originaria e una successiva. Una costruzione che riprende alcuni istituti antropologici atavici (il branco, la tribù) per raccordarli con la territorializzazione successiva alla scoperta dell’agricoltura..
Il senso dell’identità è una struttura radicata fortemente nell’animo umano.
Faccio un esempio. Ogni quattro anni, in una nazione diversa del mondo, succede una cosa di cui gli scienziati non si sono mai occupati tanto.
Una nazione esplode con una festa di popolo generalizzata: balli, canti, bevute, caroselli di auto, gioia pazza e irrefrenabile. Un fenomeno popolare che Mauss definirebbe, certamente, come fatto sociale totale.
Cosa può essere capitato in quella nazione del mondo? Una rivoluzione? È nato il principe? Si è vinta la guerra? l’economia ha fatto un balzo in avanti? è stato eletto un nuovo capo religioso? No signori.
La cosa più stupida e banale del mondo.
In quella nazione, semplicemente, si sono vinti i mondiali di calcio.
Trovatemi una manifestazione al mondo più notevole di quei festeggiamenti.
Non la troverete.
Non la troverete perché quei festeggiamenti hanno a che fare con un motore antropologico che ha radici molto antiche e profonde, e che trova nella popolarità di uno sport comprensibile a tutti, buttare una palla con i piedi dentro una rete, una fenomenologia condivisa e popolare. L’identità e il senso di appartenenza.
Le cose che hanno a che fare con l’identità sono dotate di una potenza, di una forza profonda e oscura, anche quando si tratta di una scelta individuale deliberata.
Festa uguale quando il Cagliari vinse lo scudetto nel 1970. Ricordiamocelo prima che si dica che è una mitopoiesi, una invenzione, e che Gigi Riva, come Eleonora, è un eponimo fantasioso.
Lo dimostrano i falsi d’Arborea.
Perché alla fine, fatti storici ampiamente acclarati e accertati, come le vicende della Brigata Sassari, (basterebbe leggersi il bel libro della storica Giuseppina Fois) finiscono tutti, comodamente, nella mitopoiesi.
È vero, dunque, che gli stati nazione operino, sulle emergenze etniche, una costruzione. Incanalano, dunque, queste emergenze etniche dentro dei confini amministrativi il più possibile omogenei, fondati su una identità linguistica più o meno forzosa. Vi sono naturalmente stati multietnici, aggregati sulla base di altri interessi, bellici, difensivi, economici; altri stati ancora invece creati dagli interessi delle potenze coloniali, come quelli africani.
Ma tutta la teoretica sulla costruzione dell’identità negli stati nazione, scientificamente plausibile quando non sconfina nell’assoluto, perde significato nella sua applicazione all’ambito regionale.
Infatti per la Sardegna non si può parlare di costruzione dell’identità, ma di reazione difensiva ad una costrizione, ad una omologazione nazionale che investiva un’isola con delle prerogative linguistiche, culturali e tradizionali, come spiega molto bene Cirese in una suo inciso ormai noto (All’Isola dei Sardi, Il Maestrale) particolarmente spiccate.
Per la Sardegna non si può parlare di costruzione dell’identità, non si può applicare in modo pedissequo la teoretica maggioritaria del pensiero corrente sugli stati nazione.
Su questo assunto, che ho definito la “mitofobia dei sardi”, ci sto lavorando.
Qui mi preme solo dire questo: che in Sardegna non c’è stata nessuna costruzione dell’identità, anche volendo, perché mancano gli strumenti per farla. Gli stati nazione, infatti, costruiscono la propria identità mediante degli strumenti molto potenti, che portano, in particolare, all’unificazione linguistica e del costume.
Quali sono questi strumenti? La scuola, innanzi tutto. E dopo la scuola, la televisione di Stato. Poi ci sono altri strumenti potenti, come le leggi, la burocrazia, la religione, l’esercito, la moneta.
Strumenti potentissimi in mano allo Stato, mica alla Regione. Senza questi strumenti non esiste proprio che una regione possa coltivare la propria identità, può fare solo resistenza, come giustamente notano due antropologi non accademici, Michelangelo Pira e Placido Cherchi.
Ora, la mia sensazione è che, le scienze dell’uomo, l’antropologia in particolare, dopo aver servito per tanti anni il colonialismo e talvolta il razzismo, in preda al rimorso, si pieghi ad un malinteso senso della filantropia.
Perché, in effetti, la festa di popolo con balli e canti è il lato gioioso di un sentimento che spesso porta ad esiti drammatici, come sappiamo dai conflitti etnici che periodicamente esplodono nel mondo. Conflitti che nascondono l’atavica lotta per le risorse e gli interessi delle solite compagnie multinazionali e dei loro Stati.
Ma siamo certi che la decostruzione dell’identità sia una buona soluzione ai conflitti, al razzismo, alle barriere culturali?
Spesso lo è, non c’è dubbio. Ma lo è nella sua esasperazione concettuale. Non è infatti la difesa o la caratterizzazione della propria identità ad essere d’ostacolo alla pace o a favorire gli scopi del mercato, ma la negazione dell’altro.
Cioè quando si nega che l’altra cultura possa definirsi tale.
Quello che produce i conflitti culturali, nel mondo, è infatti la negazione della legittimità dell’altrui cultura, che, a mio parere, è cosa ben diversa dalla diversità culturale, che dovrebbe essere, palesemente, un valore, stando al vecchio adagio “il mondo è bello perché è vario”.
L’egemonia mercantile, preponderante a partire dagli ultimi due secoli, ha trasformato un fatto sociale in un altro. La logica originaria della diversità era la costituzione, semplicemente, di una idea di destino condiviso. La necessità antropologica di una maggiore unità e solidarietà sociale, non necessariamente mirata alla prevaricazione di altri. Condividendo un destino con una comunanza di lingua, linguaggi, storia, riti, tradizioni, miti e leggende, si persegue lo scopo di unire la società con legami solidali, dando un significato profondo e interiore agli obbiettivi comuni.
La logica della differenza è perniciosa quando è etnocentrica, piegata agli scopi di un mercato di cui per primo, Karl Polany, ne ha intuito il pericolo e la forza snaturante sugli uomini.
La negazione della cultura altrui parte dall’interpretazione formalista che noi stessi diamo ai fatti sociali. Per cui, lo scambio moglie per bestiame, che per noi, nella nostra interpretazione, dove il denaro è preponderante sugli altri valori, è un orribile mercato, per altre culture è, o forse è meglio dire era, augurio di fertilità e di indipendenza della nuova coppia.
Poi prosegue negando il relativismo culturale, e generalizzando, in modo artefatto, episodi. Ovvero attribuendo a fenomeni circoscritti, il significato di fatto sociale totale.
I sardi sono tutti sequestratori, l’islam è tutto violento, e così via.
Operazioni di questo tipo, non attengono alla difesa della propria diversità. Non vedo una contraddizione a tutelare un sapere locale, come può essere la memoria della manifattura del bisso, e spiegare che l’Isis o Al Qaeda non sono l’Islam, ma degenerazioni prodotte dalle guerre che l’occidente provoca in quei luoghi.
E ancora, siamo sicuri che la gerarchia del potere, egemonizzata dal mercato, preferisca le diversità culturali al pensiero unico, alla uniformità del costume, alla cosiddetta globalizzazione?
Quando le grandi multinazionali dell’alimentazione, come la Nestlè, hanno investito le popolazioni dell’Africa con il latte in polvere, demonizzando l’allattamento materno, lo hanno fatto sulla base di un etnocentrismo che negava alla cultura locale diritto di esistere. Il lungo allattamento della madri africane è stato considerato come ignoranza, non come diversità culturale, ma soprattutto un ostacolo al mercato e al consumo del prodotto. Ora stanno contando i danni e i morti.
Quando la borghesia industriale del Nord Italia ha deciso di stoccare le sue industrie pesanti in Sardegna, approfittando dei finanziamenti statali destinati al popolo sardo, imbastì una campagna denigratoria contro la diversità culturale, la cultura pastorale, descrivendola come turpe e violenta, come un mondo dominato da padri padroni e banditi.
Ancora oggi, quando si nega una prospezione per il metano, cominciano a riemergere quelle denigrazioni.
Il mercato ha sempre considerato le diversità culturali un ostacolo, e la globalizzazione è la risposta, è il meccanismo idoneo a poter vendere, in modo massificante, i prodotti di massa in tutto il mondo.
La criminalizzazione dell’identità finisce per imporre un pensiero unico, predominante, spinto da un mercato che fa tabula rasa di tutte le diversità e che trasforma lo stesso organismo umano in un androide buono solo per comprare e per vendere.
Compreso se stesso.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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