La prima cravatta che acquistai aveva un colore improponibile: arancione lucido. Quasi fluorescente. Ne andavo, a dire il vero, molto orgoglioso. Avevo sedici anni e quella cravatta rappresentava il debutto in una società diversa da quella frequentata sino a quel momento: una festa a casa di un’amica che tutti definivano “borghese”. Una che contava perché il padre era avvocato, la madre docente universitaria, un fratello faceva praticantato in uno studio di un notaio e lei aveva le lentiggini e la faccia da brava ragazza. Non ne ero innamorato però, insomma, un pensierino c’era nel disegno incredibile che solo gli adolescenti cretini riescono ad immaginare, in quella tela pasticciata che era la vita appena abbozzata con la matita. La cravatta arancione ritenevo fosse un bel compromesso tra la passione e la serietà. Erano cazzate, d’accordo, ma erano cazzate per me molto serie. Essendo un tipo puntuale (arrivavo anche mezz’ora prima agli appuntamenti, cosa che, ahimè, mi è rimasta appiccicata ancora oggi) avevo tutto il tempo per osservare il perimetro della villa (una villa sfacciatamente borghese) e la bellezza del prato inglese che le era stato disegnato intorno. Io e la mia cravatta arancione. Fiero e convinto. Mi sedetti nervoso in una panchina di una piazza antistante aspettando l’ora giusta per bussare al campanello. Io e la mia cravatta arancione per la quale ero stato sfottuto abbondantemente dai miei amici che mi avevano accusato di essere uno di destra. Stronzi. Arrivarono le sedici. Ora stabilita per il mio ingresso in società. Bussai e sentii il ronzio sottile del portone che si apriva elettronicamente. Ad attendermi Barbara (per me Barbarella e non chiedetemi perché) insieme al padre. Con una stiratissima camicia bianca, le maniche arrotolate sino ai gomiti e nessuna cravatta. Neppure il fratello portava la cravatta e neppure nessun altro uomo o ragazzo che varcò quel giorno, quel dannato portone, portava la cravatta. Barbara (Barbarella, per me) sorrise e disse soltanto: “Bella la tua cravatta ma questa era una festa informale e l’arancione non è un colore serio”. Non capii nel momento che cosa volesse dire Barbara (Barbarella, per me) e solo dopo qualche mese, quando si fidanzò con Antonio quello che portava sempre le magliette Lacoste bianche compresi la lezione: l’abito non fa il monaco però aiuta. Quell’anno acquistai una maglietta Lacoste. Arancione. E Barbarella divenne Barbara. Una spocchiosa borghese che non era riuscita a comprendere la mia cravatta.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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