Ci sono persone che non si sono mai perdonate la vita. Ci sono persone che non hanno mai superato il senso di colpa per essere sopravvissute ad una strage, uniche superstiti tra tanti volti amici cancellati dalla follia. E quel senso di colpa le ha assillate per decenni, notte per notte, al riapparire di ogni immagine o ogni suono del quotidiano che, in qualche modo, potesse rievocare il momento dell’esplosione. Una di queste persone si chiama Marina Gamberini.
Chi ha più di quarant’anni ha già visto Marina in una foto, almeno una volta nella vita, ma non sa che quella giovane donna col terrore nei grandi occhi, distesa su una lettiga, portava quel nome.
Marina ha 54 anni, vive a Bologna e il 2 agosto del 1980 stava alla scrivania del suo posto di lavoro, alla stazione. Era un’impiegata della Ciga, la società cui era affidata la gestione del ristorante.
Quando, alle 10,25, i ventiquattro chili di esplosivo hanno sbriciolato la stazione, lei contava i soldi del primo incasso mattutino: la bomba l’ha proiettata verso il soffitto, poi la parabola della poltrona che la sosteneva si è spenta sull’unico pezzetto di pavimento rimasto in piedi, mentre una valanga di macerie le ricadeva addosso. Ma quella pioggia di cemento e ferro l’ha graziata. Nella stazione di Bologna, il 2 agosto, c’era un gran trafficare di treni, un vociare ininterrotto di gente in partenza e un clamoroso salutarsi sulla via della vacanza, abbracci fradici di sudore e agitarsi di fazzoletti.
Marina ricorda ancora l’orrore di quegli istanti di silenzio abissale, dopo lo scoppio.
Perché Marina è uscita viva dalla strage di Bologna. L’attentato che in un lampo ha tolto il futuro a 85 persone e ha segnato le carni di altre 217 esistenze.
Chi oggi è abbastanza grande per avere letto i giornali e per ricordare i telegiornali – in quelle ore, in quei giorni di afa e angoscia – non può avere dimenticato una foto: militari e soccorritori trascinano una barella che scorre accanto ad un vagone, accompagnano verso la salvezza una superstite, ritrovata viva dopo due ore di ricerche tra le rovine dell’edificio. È Marina Gamberini, unica scampata alla morte tra le sei dipendenti del ristorante della stazione. In quel flash ha gli occhi e la bocca spalancati, la nuca appoggiata su un cuscino di capelli folti e aggrovigliati. Il suo urlo al cielo sembra un’espressione drammatica di Anna Magnani.
Marina è viva, ma non completamente. Ha il cranio fratturato e lesioni dappertutto, ma non sono le ferite del corpo a cambiarla. Sono il peso insostenibile del massacro, gli schizzi di sangue su ciò che resta delle pareti a trasformarla, rubandole per sempre il sorriso. I suoi giorni sono scanditi dagli incubi notturni, dal senso di colpa che le divampa dentro ad ogni manifestazione, ad ogni occasione pubblica in cui si ricordi la strage. Lei, unica superstite tra le sei colleghe del ristorante. Basta il fragore di un petardo o di un fuoco d’artificio perché il suo corpo, prima ancora della sua mente, torni al 2 agosto 1980. Istintivamente, le braccia si incrociano, le mani afferrano le spalle, la testa si china sul petto. È un riflesso che Marina non può governare, fuori dal suo controllo.
La sua vita scorre tra le terapie degli psicologi. Tutti le riconoscono disturbi post traumatici permanenti, certo, ma molti le addebitano una personalità labile, troppo sensibile per liberarsi di quel ricordo.
E lei, giorno dopo giorno, si convince di essere sbagliata. Cerca di sfuggire ai fantasmi rimuovendone il ricordo, ma non è possibile. E se ne rende conto dal primo momento.
Poi, nel 2009, viene intervistata da una televisione straniera. Sono passati ventinove anni dalla strage. Pochi mesi dopo vede il documentario cui ha contribuito: testimonianze di sopravvissuti a stragi avvenute in tutto il mondo.
Le sue parole si sommano a quelle di una donna scampata alle repressione della polizia sugli Champs Elysees, a Parigi, nel 1961, e all’angoscia di una turista sfiorata dai proiettili esplosi dai terroristi a Luxor, in Egitto, nel 1997.
Due carneficine. E loro, le superstiti, raccontano di un dopo che, in tutto e per tutto, è simile a quello di Marina Gamberini. Incubi ricorrenti e senso di colpa invincibile.
E allora Marina capisce di non essere lei, quella sbagliata. Capisce che nessun titolo di studio potrà mai bastare per comprendere il crollo di un’anima, la sua anima abbattuta da una valigia imbottita di esplosivo.
Ma Marina afferra, anche e per la prima volta, un’altra verità: parlare in pubblico del suo calvario le risulta liberatorio, le restituisce pace.
Quando viene coinvolta in un’iniziativa della Regione Emilia-Romagna, non si tira indietro. Va per le scuole a raccontare il suo vissuto ai ragazzi che non hanno mai visto quella foto, lei distesa su una lettiga che sui binari della stazione viene salvata dalla morte del corpo. Perché tutti devono sapere, perché a nessuno è permesso dimenticare una strage, i suoi ottantacinque morti e tutte le domande rimaste tali.
Nell’esempio di Marina c’è una lezione universale. Solo coltivando la memoria si può liberare sé stessi e il mondo da ogni violenza repressa e pubblicarla sul muro della storia, perché tutti la condividano. Bastano le parole.
*La testimonianza di Marina Gamberini è stata raccolta da Carlo Lucarelli per la trasmissione “La tredicesima ora”. A costo di qualche incubo notturno, ho voluto che mio figlio la sentisse.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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