E ieri stavamo seduti al tavolino del bar, pure con il freddo che con il buio a poco a poco ci entrava nelle ossa, a fianco del vecchio pastificio trasformato a metà in un centro commerciale e di uffici e nell’altra in un rudere dove si incistano officine meccaniche e ricordi di grandezze passate, come nelle mura riabitate di Roma o di Costantinopoli. E davanti a noi, la casa dei fantasmi. E parlavamo del declino di Sassari: un architetto che conosce la storia urbanistica e sociale di questa città come fosse lo studio o il salotto di casa sua; un attore e operatore teatrale che per tenere viva la cultura di Sassari ha fatto più di mille sindaci messi insieme; e io che penso che la mia città sia un essere vivo e antico che mi ospita come una pulce innocua sul suo immenso corpo. Qualcuno ci aveva aperto quasi di nascosto il portone di quella casa dalla finestre arabeggianti e goticheggianti, cadente e fascinosa, dove si era consumato un capitolo importante e sconosciuto del Novecento sassarese da noi inusitatamente scoperto e che sarà tra poco rivelato in un libro che proprio in queste ore è in stampa. Avevamo scoperto che una grande tragedia che ha segnato Sassari con luoghi di pietra che ancora esistono e mi auguro che per la loro bellezza continuino a esserci per sempre, si era generata e si era conclusa tra quei muri di modelli sovrapposti e giustapposti. “Stile eclettico”, si chiama. E nonostante l’alito di morte che spirava dalla imposte fracassate, volevamo vederne l’interno, per dare una fisicità a quella storia che per noi era sino a prima fatta da documenti che avevamo fortunosamente riportato a galla da archivi e cantine. Siamo usciti tutti e tre muti, scuotendo dalle scarpe la merda secca di topi e piccioni. C’era un bar, lì davanti, e abbiamo ordinato una birra. E alla fine uno di noi ha trovato il coraggio di dire quello che tutti avevamo in testa. Che quella casa, destinata essere svuotata dello spirito e conservare soltanto una facciata vincolata dalla soprintendenza, copertura a un nido di piccoli, modernissimi appartamenti, è il simbolo del declino della nostra città: triste, affastellata, eclettica e diruta sino a dentro l’anima. Ho guardato verso una di quelle spettrali finestre dall’altra parte della strada. Ed elegante, con la cravatta e i guanti e i capelli pettinati all’indietro, ho visto lui che assentiva con un sorriso malinconico. Non mi ha fatto paura. Solo tristezza.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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