Ci sono due storie apparse sulle pagine dello stesso quotidiano (il Corriere della Sera) che mi hanno colpito: per rabbia e per felicità. Le contrapposizioni fanno parte del movimento eterno che l’esistenza compie quotidianamente e ci invitano a riflettere. Le storie vedono come protagoniste due madri, una di esse vive in Sardegna, ma questo c’entra pochissimo con quello che sto per scrivere. La seconda donna è la madre di uno dei ragazzini accusati di aver ricevuto uno di quei video postati in una chat dedicata e che rappresentavano la persecuzione di giovanissimi nei confronti di un pensionato di 65 anni di Manduria, un paese del tarantino. Antonio Stano, questo il suo nome, è morto martedì scorso in ospedale, dove era stato ricoverato il 6 aprile in stato di estrema prostrazione. La mamma del “bulletto” ammette la propria sconfitta e sa di aver perduto quella strana battaglia che i genitori, quotidianamente, affrontano per provare a regalare pillole di etica e buone maniere che sembrano perdute per sempre. “I cellulari sono la droga della nuova era” dice con un filo di voce ma “è evidente”, aggiunge “che io non sono stata capace di far capirei mio figlio che cos’è il bene e cos’è il male”. Dentro quella famiglia i fantasmi del rimorso aleggeranno per mesi, forse per anni. Quella donna e quel ragazzino avranno, per sempre, una strada segnata e nel tempo arriveranno alla consapevolezza che era possibile comportarsi in maniera “semplicemente” normale. L’altra mamma, invece, ci racconta il suo personale calvario di violenze terribili subite da quello che, ancora, chiama marito e padre dei tre figli. Mi ha colpito, nel racconto pubblicato dal Corriere della sera e raccolto dalla giornalista Giusi Fasano, l’amore sconsiderato di questa donna per i propri figli, ai quali consegna una lettera struggente e bellissima, piena di buoni sentimenti, “semplicemente” normali. Il marito è un uomo terribilmente inutile, cattivo senza neppure una ragione, padrone di sentimenti insulsi e inutili che trascorre, a seguito dell’arresto per tentato omicidio, le sue giornate in carcere a Uta. Dovrà provare a comprendere tutto il male che ha fatto, tutta la distruzione che ha prodotto ad una donna desiderosa di essere soltanto amata, desiderosa di momenti di gentilezza che non ci sono mai stati. Le due storie, terribili e figlie di questi tempi, mal si conciliano con quanto letto, sempre oggi, in un articolo apparso su “la Repubblica”, a firma di Enrico Ferro. Qui, a Treviso, c’è una professoressa delle scuole medie che insegna ai ragazzi la gentilezza e chiede di tenere un diario dei piccoli gesti quotidiani che i minori riescono a compiere in famiglia e con gli amici. C’è ancora speranza in fondo al tunnel della follia quotidiana? Si, c’è ancora speranza. Lo dico a quella madre tarantina che si dispera davanti a quello che ha commesso il figlio minorenne e lo dico anche a Iris, (nome di fantasia usato dalla giornalista) la donna sarda che continua la sua lotta per proteggere i propri figli e la sua dignità. La speranza è dettata dai gesti, dalla consapevolezza che esistono strade da intraprendere per educare i propri figli. C’è la possibilità che un giorno, sopraffatti dalla gentilezza non dovranno, per camminare sulle piazze della vita, essere costretti ad urlare o picchiare la propria donna. C’è la consapevolezza che questo rogo nei confronti dei più deboli debba finire attraverso la presa di posizione di tutti, deve esserci il coraggio a raccontare e denunciare questi gesti e nelle scuole, nelle famiglie, dobbiamo ricominciare a pretendere il rispetto per gli altri, dobbiamo ricominciare ad educare alla sobrietà, alla “normalità”, dobbiamo cominciare a far capire che questa arroganza, questa tracotanza, questa malvagità, questo gusto di irridere gli altri non paga, non serve per costruire consenso. Queste due donne, apparentemente sconfitte possono essere salvate da gesti come quelli della Professoressa Mara Pillon, – un’altra donna – che costringe ad intervenire quando le ragazzine in gruppo non si preoccupano che una loro compagna di classe rimane sola. Da quella solitudine interiore occorre provare a ristabilire un contatto, occorre comprendere che dai piccoli gesti può nascere un nuovo modo di vedere le cose. Iris, nella sua lettera, si rivolge ai suoi figli e chiede loro di non essere mai violenti con nessuno. Mai. Lo chiede a dei ragazzi che hanno vissuto dentro stanze gonfie di violenza e di soprusi inenarrabili. Lo chiede perché Iris ha capito che quell’uomo, che ancora chiama suo marito, è l’elemento da dimenticare, non c’è nulla di bello da ricordare; quell’uomo, come quei ragazzini che hanno vituperato una persona malata ed anziana, non possono trovare posto nelle città ideali. Non possono varcare le nostre soglie senza prima aver effettuato un lungo viaggio dentro se stessi. Non possono ripartire se prima non comprendono la “normalità dei gesti”. Raccontiamo ai nostri figli come queste storie vanno a finire: non si diventa idoli e neppure leader continuando con questi comportamenti inumani. Si conosce il carcere, la comunità di recupero, si intraprendono strade che, difficilmente saranno dimenticate.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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