di Maria Dore
Poteva essere un diario lungo un anno, quello di me in un paese come la Slovacchia. Invece il mio diario slovacco ha molte pagine bianche. Un anno fa avevo scritto parole che sono quelle di chi è appena arrivato. Quelle di oggi sono parole di chi c’è da un po’, ma che non è sicuro di avere capito. Il diario di una persona che emigra in Slovacchia non può che contenere poche parole della lingua del paese ospitante. Di declinazioni, non ne voglio sentire. Ce lo diciamo tutti, stanchi, al corso serale di lingua, che ci basta poco; salutare, saper decifrare un’etichetta per capire cosa stiamo mangiando, dire a chi ci ferma per strada che non sappiamo parlare. Anche se, a quelli che quando capiscono che non siamo slovacchi spengono il sorriso, vorremmo dirne di cose. Che stiamo abbastanza bene, certo. Ma che con questa cosa che immigrati non ne vogliono, la dovrebbero un po’ smettere. Tra noi c’è addirittura qualcuno che qui a Bratislava è venuto per scelta, non per necessità. Eppure sbotta, “Non è possibile che questi quando vedono un nero è come se abbiano davanti un alieno”. La Slovacchia immigrati non ne vuole, dicono, e il partito neonazista è in parlamento con l’8%. Mi hanno detto che alle ultime regionali hanno preso una batosta, ma anche qui le regionali sono altro. Che ci fossero le regionali me ne sono accorta da qualche santino lasciato cadere in strada e grazie a uno, ritoccato con pennarello da qualche elettore scontento, ho imparato una parola nuova parola da aggiungere al mio vocabolario slovacco: PROSTITUTKA. Bratislava vive l’euforia della delocalizzazione e delle multinazionali che la corteggiano. Il livello di euforia la avverti dai prezzi degli affitti. “Credevo di essere atterrato in Slovacchia, mi chiedono un affitto che mi pare di stare a Tokyo”. “Lasciagliela passare, la sbornia capitalista, che qualcuno sta già pensando di spostarsi in Romania”. E ci guardiamo un po’ curiosi, un po’ incerti. Alla galleria di arte contemporanea abbiamo scoperto che ai tempi del comunismo si vestivano bene, mentre noi, prima di entrare alla mostra, ci immaginavamo cose tristi. Anche perché, molti di quelli con cui parli, di comunismo non vogliono sentire parlare. E ogni tanto se ne escono con la storia che che è la stessa cosa del fascismo. Non solo gli slovacchi, ma pure gli austriaci, come quello che me lo ha detto per strada mentre scattavo una foto, quella sopra. Se sono la stessa cosa, perché i fascisti li votate e il comunismo lo tenete nel museo? E la Kofola, la risposta cecoslovacca alla Coca Cola, ve la vantate ancora. Dite quello che vi pare, voi. Intanto quel libro anni ‘60 di grammatica francese per la scuola media che un collega ha trovato in una libreria dell’usato, e che mi ha mi fatto tanto ridere perché negli esercizi da completare i padri di famiglia fanno tutti gli operai, è bellissimo. E quel paragrafo sulle vacanze estive dei bambini nelle colonie, che si concludeva così “Viva i bambini cecoslovacchi, sovietici e francesi!”, mi pare più bello dell’Europa che molti di voi vogliono adesso
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