Lo confesso, non credo nell’autonomia regionale. Avverto un senso di fastidio e distanza sia da quelle ordinarie sia da quelle “speciali” come la nostra. Da quando ho cominciato a interessarmi di politica, da adolescente come militante e più in là come osservatore che aveva il dovere di essere professionale, ho sempre pensato che i poteri regionali decentrati fossero di ostacolo a una buona amministrazione, mentre per esperienza condivisa ho maggiore fiducia nei Comuni, specialmente da quando la riforma del 1993 stabilì l’elezione diretta dei sindaci. Parlo quindi di un arco di “sensazioni” – uso questa parola perché è di ciò che vi parlo, non ritenendomi tale osservatore politico da poter usare la parola “analisi” – che va dalla fine degli anni Sessanta sino ai giorni nostri; durante il quale, per parlare della Sardegna, ho sviluppato un certo interesse verso la Regione e persino un pallido senso di appartenenza soltanto durante il periodo di Mario Melis, che considero l’ultimo erede di Lussu, cioè un grande azionista, un’area diffusa eppure nascosta della politica italiana verso la quale ho sempre provato una grande simpatia, come molti altri borghesi progressisti di formazione politica e culturale marxista. Sono nato in una terra dove l’autonomismo è di casa, l’autonomia penso di no. Tutti noi abbiamo contributo come elettori a formare una classe politica che ha sempre finto di pensare al bene sostanziale dell’isola per barattare con i poteri centrali vantaggi di partito, di corrente e talvolta personali. Non si spiega in altro modo il fatto che il divario sul costo dell’energia e la discontinuità territoriale siano problemi irrisolti, situazione quasi unica nel mondo occidentale in situazioni territoriali simili alla nostra. Quando la sinistra ha cavalcato e vinto a livello nazionale la battaglia per il decentramento dei poteri alle Regioni, ho provato una grande delusione poiché appartengo a quell’area politica, ma sempre convinto che le mie sensazioni non potessero ammantarsi di sicurezza analitica, speravo di sbagliarmi. Da allora, a parte quel senso di appartenenza che ebbi durante la presidenza Melis, ci sono stati soltanto due presidenti che giudicai, se non proprio necessari al bene dell’isola, quanto meno non di grave ostacolo al suo perseguimento, il che per come la penso è un grande complimento: sono stati Renato Soru e (pur con tutti i limiti di una non totale indipendenza dalle panie nefaste del Pd sardo) Francesco Pigliaru, entrambi uomini politici consci del ruolo di classe dirigente. La Regione Sardegna, con il suo statuto speciale, è a mio avviso parte del fallimento di tutte le Regioni italiane, quelle normali e quelle speciali. La pandemia ci ha fatto capire in tempi ed eventi concentrati quanto sia stato nefasto affidare la sanità italiana a istituzioni capaci di gestirla soprattutto sul piano clientelare e di tornaconto politico. C’è chi vorrebbe togliere loro questo mandato e riaffidarlo allo Stato, sarebbe una pacchia, ma è pure un’utopia, purtroppo: la sanità costituisce pressappoco il settanta per cento del volume amministrativo della maggior parte delle Regioni italiane e, se si vedessero sottratto questo tesoretto di potere, i politici locali scatenerebbero altrettante guerre di secessione quante sono le Regioni. Che poi, in quanto a politica locale, penso che il fallimento della riforma che cinquant’anni fa applicò il dettato costituzionale, stia proprio in questo: i saggi ma non infallibili legislatori del dopoguerra speravano che l’istituto del decentramento riportasse i ceti politici locali a rappresentare le esigenze territoriali, creando un sano equilibrio tra esigenze nazionali e regionali. Niente di tutto questo: gli schieramenti nazionali si sono riprodotti in sedicesimo in ciascuna Regione, con tutte le loro conseguenze di baratti, cedimenti e disprezzo delle necessità dei rispettivi territori mascherato spesso da ostentazione di indipendenza e ridicola e ossessiva rivendicazione di potere a parole da parte dei presidenti. Hanno cercato di separarsi dai poteri e dall’organizzazione dello Stato ma sono parte fedele della politica che lo controlla. Ogni Regione è divenuta un potentato locale che si accaparra soldi e funzioni non per il bene dei rispettivi popoli ma per la conservazione del comando. L’assetto burocratico è stato un fallimento, poiché le Regioni spendono e soprattutto sprecano più dello Stato. Che fare? Černyševskij rispose alla domanda esaltando nel suo romanzo, che si chiama come la domanda stessa, la parità tra i sessi, l’emancipazione femminile, il cooperativismo, l’impegno etico e criticando le convenzioni borghesi. In uno scoperto gioco di relazioni simboliche si potrebbe proporre lo stesso. Ma lo stesso Lenin, citando il titolo in un suo più famoso saggio, riteneva che quello scrittore ottocentesco fosse in fondo un simpatico sognatore.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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