Io lo sapevo che, prima o poi, i conti con la propria coscienza bisogna farseli e guardandosi dentro l’anima si finisce per mischiare anche gli altri. Lo sapevo che la storia di Battisti non funzionava sin dall’inizio, non mi aveva convinto questo strano intellettuale fuggito e perseguitato. Non mi aveva mai convinto quel suo accusare uno Stato cattivo e duro che, nei suoi confronti, aveva allestito un processo sommario e fuori dalle regole del diritto. Lo sapevo da sempre e da sempre l’avevo evidenziato: Cesare Battisti non mi piaceva. Come non mi piaceva l’accanimento che alcuni politici avevano nei suoi confronti. Non mi sono mai piaciuti coloro che utilizzano il ghigno e la bava alla bocca. Però, alla fine, con la verità bisogna fare i conti. Bisogna riuscire a sedersi sull’orlo del giudizio ed abbandonare quello del pregiudizio. Se fossimo in altri tempi – e i tempi son trascorsi – se fossimo tutti più rilassati – e da tempo non lo siamo – le parole di Battisti meriterebbero perlomeno l’onore delle armi. La canea che si è subito attivata prevede invece la gogna perpetua, lo scioglimento istantaneo delle chiavi che aprono la serratura della cella del carcere di Oristano e anche – visto che va di moda – la castrazione chimica. A nessuno sembra interessare perché Battisti abbia deciso dopo quarant’anni di dire la verità che, attenzione, non è la sua verità ma quella che, tutto sommato, era descritta nelle pagine processuali. Lo Stato non aveva sbagliato nei suoi confronti, quello Stato che a volte si considera patrigno aveva saputo giudicare in modo equo. Perché Battisti ha deciso di ristabilire la verità? Perché ha rimesso la sua linea completamente asimmetrica rispetto a quella del tribunale e l’ha fatta combaciare? Troppo facile dire che l’ha fatto per ottenere qualcosa in cambio. Troppo semplice. C’è anche questo ed è piuttosto umano, non dico condivisibile, ma umano. Non è solo questo. Probabilmente il carcere è servito per una seria riflessione. Non sono amante dei penitenziari anche se per mestiere li frequento e qualcuno – Luigi Manconi, per esempio – continua a definirmi un democratico carceriere, ma ritengo che il carcere possa essere servito come punto iniziale di un percorso che nella latitanza adrenalinica non era mai apparso. Il carcere è il ventre della solitudine, la bestia bastarda che non vorresti mai incontrare. Dentro quel budello maledetto sei solo senza nessuna possibilità di raccordo con il mondo esterno. Non ci sono gli amici che scrivono proclami per te e, anche se li scrivono, non servono.Il carcere appiattisce e cancella, il carcere disegna e seziona la vita e le azioni che si sono susseguite sino al suo incontro. Cesare Battisti ha camminato dentro quel bastardo cunicolo e per essere vomitato doveva – necessariamente – affermare che il palcoscenico non gli serviva più, la commedia era finita e doveva cominciare la tragedia. Ha toccato con mano la carne viva della coscienza, ha capito che poteva continuare a fingere e provare a fregare tutto il mondo ma non poteva fottere se stesso. Il carcere non glielo avrebbe permesso. Poi, ci sono passaggi complessi: alcuni continuano a costruirsi quell’alone di mistero e di falsa verità che li porta a negare sempre. Battisti non lo ha fatto ed è un buon punto di partenza. Costa ammettere i propri errori, guardarsi in faccia, guardare il mondo e affermare che, effettivamente, lui era un assassino. Un assassino vero. In questo processo ha commesso un solo errore: ha affermato che quei morti, quelle tragedie, facevano parte di una guerra e, ormai, la guerra si era conclusa. Lui stesso aveva subito dopo deposto le armi. Era diventato uno scrittore, uno che amava narrare le storie, uno che aveva dimenticato tutto quel sangue e quell’orrore. Non si liquidano in questo modo i conti con la storia. Troppo facile. Non c’è stata nessuna guerra. Negli anni settanta, ai tempi delle brigate rosse, dei Nap, dei Pac, di Prima linea, dei Nar, di Ordine Nuovo ero un adolescente e nessuno di noi dichiarò guerra a nessuno. Solo alcuni – pochissimi rispetto alla totalità della generazione – decisero di risolvere il problema della libertà limitando la vita agli altri. Questo è un modo distorto di vedere la realtà. Suggerisco a Battisti, adesso che è riuscito a fare outing, di andare oltre, di provare a disegnare un nuovo orizzonte dalla cella del carcere di Oristano, un disegno che passa per il rispetto delle vittime, della storia e di chi in quegli anni ha perduto la sua adolescenza. Come me. Caro Battisti, sei un assassino. Non sei mai stato un compagno che sbagliava. Non potevi esserlo. Sei un assassino. Questo è il punto di partenza dove poter costruire il tuo sterile futuro. Deponi finalmente le armi. Tutte. Non eri un soldato che partecipavi ad una guerra. Non eri un ideologo e non avevi in tasca – come me – nessuna verità assoluta. La vera rivoluzione si costruisce con le parole. Tu le hai utilizzate dopo aver sparato. Io, invece, con le parole ho sempre dosato la bilancia delle mie sensazioni. Mi sento deluso ma non sconfitto. Tu hai perso e io non ho vinto. Tu meriti l’ergastolo anche se è una punizione che non ho mai amato. Da carceriere democratico ti dico: lascia perdere il perdono e le guerre. Partiamo dal tuo “fine pena mai” e proviamo a miscelarlo con l’articolo 27 della Costituzione. Noi, in questo Stato nato dalla lotta partigiana, ci abbiamo sempre creduto. Abbiamo amato la carta costituzionale, abbiamo rispettato le leggi e abbiamo provato a renderlo migliore. Non so se ci siamo riusciti. Tu, non ci hai neppure tentato. Adesso è necessario riconoscerlo. Questo ti chiedo. Il carcere ti serva per ripartire. Non è mai tardi per individuare le proprie sconfitte e non è mai tardi per provare a ricostruire. Da quel tavolo dove c’è scritto a chiare lettere “fine pena mai” possiamo ripartire. Ma le carte devono stare tutte su quel banco. Senza paura, senza rancore e senza dover necessariamente perdonare. Un percorso laico che non preveda vendetta ma solo riconoscimento e rispetto dei ruoli. Di tutti i ruoli. E non è tardi.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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