Ci sono mille modi e mille scuse per parlare di Fabrizio De André. Lo faccio ogni anno, da quando quell’11 gennaio del 1999 ci ha lasciato. Sono passati ormai 23 anni e tutti gli anni scrivo qualcosa su di lui. Sulle sue canzoni, le sue parole, i suoi gesti contrapposti alla mia vita, alle mie scelte, al mio modo di vivere all’interno delle sue storie. Conosco tutte le canzoni, moltissime a memoria. Ci sono, però, testi che amo più di altri perché rappresentano un pezzo della mia vita. Dal “pescatore” che ricorda il mio primo incontro con Faber, ad Amico Fragile, utilizzata abbondantemente nei tre miei romanzi dove il protagonista, il magistrato Claudio Marceddu, la canta sempre sotto la doccia. Gli album che ascolto più degli altri sono “Storia di un impiegato” e “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” e le canzoni più intense sono “Nella mia ora di libertà” e “Il suonatore Jones”. Riascoltarle mi riporta alle mie esperienze di vita. Ho respirato, come la canzone racconta, per molti anni l’aria dei secondini e dei prigionieri. Ho conosciuto ladri, assassini, stupratori, sequestratori di persona compresi proprio quelli che, un giorno del 1979, decisero che De André meritava un sequestro. Ho raccolto storie maledette, nascoste, bastarde, sudicie, terribili ma ho anche appreso quanta umanità e quanta dignità si nasconde dietro le sbarre di un carcere. Ho vissuto con i poliziotti penitenziari lo sconforto per non riuscire a raggiungere la Sardegna per colpa di un mare cattivo all’Asinara. Sono passati gli anni e i volti dei reietti mi hanno accompagnato come le frasi bellissime e immense del poeta De André: “Ho imparato un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali, tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali”. Ho assaporato quel dentro che è disperazione, buio, schifezza, però ho imparato che dove gli altri vedevano siccità qualcuno immaginava una gonna che si muoveva in un ballo di tanti anni fa. E mi piace quando accarezzo i dischi in vinile di Faber immaginarmelo sul palco, poche luci, sguardo apparentemente spento pensando “E’ bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra.” Questo è Fabrizio, il mio amico fragile, tra la prigione e la vita, tra i benpensanti e i figli di puttana, ricordando che “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Quest’ultima frase si trova proprio all’ingresso della biblioteca “Fabrizio De André” nel carcere di Alghero. E di questa strepitosa scelta ne vado terribilmente fiero.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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