Io c’ero in quegli anni fetidi e pesanti. C’ero con la mia barba folta e capelli lunghi e la chitarra. C’ero ed ero curioso di comprendere perché ragazzi che avevano più o meno la mia età avevano deciso di cambiare il mondo. Come me. Ma non come volevo farlo io. Ecco, questa sottile differenza è necessaria per comprendere i modi di vedere e sentire le cose: eravamo più o meno della stessa generazione ma non rappresentavamo la generazione. Io c’ero nel 1978 quando Cesare Battisti partecipava con altri all’omicidio del Maresciallo Antonio Santoro, agente di custodia, comandante del carcere di Udine. Battisti aveva ventiquattro anni, io diciannove. Guardavamo il mondo con diottrie diverse. Quel mondo che entrambi volevamo cambiare ma con strategie diametralmente opposte. Il 1978 è stato l’anno che ha costruito la mia vita, che l’ha ferita, che l’ha modificata, che l’ha in qualche maniera segnata. Sono cresciuto dentro quelle orrende morti, dentro quelle stupide parole utilizzate da pseudorivoluzionari che non amavano coltivare la bellezza della lettura. Le loro storie erano solo volantini di proclami, era ripetere spasmodicamente la stessa cosa: lo stato imperialista delle multinazionali che avrebbero abbattuto, ed invece hanno ucciso persone inermi, innocenti. Lo hanno fatto con scientifica vigliaccheria. Io c’ero e ho visto il Maresciallo Antonio Santoro e con lui i ragazzi della scorta dell’Onorevole Moro e i poliziotti e i carabinieri e Lino Sababadin e Andrea Campagna e il gioielliere Pierluigi Torreggiani e i giornalisti e quel comunista di Guido Rossa. Anche lui, ucciso dalle brigate rosse.Io c’ero e non era fuoco amico. Smettetela di buttare sempre tutto sullo stesso tavolo, sulla stessa barricata: io c’ero, ma dall’altra parte. Decisamente. Non ero iscritto a nessun partito, non coltivavo nessuna carriera politica ma ero curioso: della vita, delle scelte degli uomini, delle lotte per modificare il mondo. Volevo lasciarlo migliore di come lo avevo trovato. Io cantavo quelle canzoni di De André e di Guccini e di Claudio Lolli e speravo che gli zingari fossero felici, che Pablo potesse, un giorno, ritornare dalla Svizzera con la dignità ritrovata e che la locomotiva potesse essere un segnale di riscossa contro tutte le ingiustizie. Io c’ero spavaldo e sicuro che le mie idee fossero le migliori, che le mie letture fossero le uniche: da Amado a Marquez, da Scorza a Pasolini, a Buzzati, a Leopardi, a Dostoevskij. Io c’ero con gli scazzi di quella generazione con il vino e con la birra e mai, dico mai, ho fumato in vita mia uno spinello. Avevo degli strani principi e amavo il mondo.Mi sono innamorato di mille donne perché era bello trascorrere il tempo ascoltando Joan Baez e i Pink Floyd e sperare in un bacio, che non arrivava, ma coltivavo spasmodiche speranze. Io c’ero con la mia barba e i miei capelli e la chitarra e la mia penna e la mia voglia di diventare uno scrittore, un giorno. Magari un giornalista che potesse raccontare le stronzate di alcuni della mia generazione che utilizzavano sempre le stesse parole e parlavano in nome del proletariato. Che non conoscevano. Parole vuote di gente che non frequentava le periferie o le frequentava ma non le capiva. Gente che utilizzava i termini e si fregiava di quelli: come comunista. Io c’ero e ci stavo male. Avevo un’altra idea del comunismo e di quella bellissima parola che unisce e non divide, che riesce a dare il pane a chi lo chiede perché gli manca, a chi riesce a costruire sorrisi laddove c’è tristezza.Questo era per me il comunismo: occuparsi del mondo per comprenderlo e provare a renderlo migliore: più equo, più semplice, più colorato, più giusto. Io c’ero e soffrivo quando i brigatisti uccidevano in nome del proletariato, quando sentenziavano senza nessun processo in nome del popolo, quando provvedevano a costruire la mattanza delle idee, quando falciavano le vite di carabinieri e poliziotti. Io c’ero e, come Pasolini, stavo dalla parte dei poliziotti. Perché credevo nello Stato e ritenevo che chi governava stesse comunque sbagliando: li combattevo con il mio impegno quotidiano e leggevo, leggevo, leggevo. Tra la musica e le parole e i film io c’ero e quando tutto questo è finito, è andato al macero siamo rimasti senza sorrisi e con poche parole. Siamo rimasti, rispetto alle brigate rosse, ai partiti armati combattenti, a quelli di prima linea, dei proletari armati per il comunismo, dall’altra parte. Molto distanti. Ad un certo punto confesso di averli odiati per aver pasticciato la mia adolescenza, per avermi costretto a schierarmi forsennatamente contro di loro e contro le loro vigliacche uccisioni. Vorrei chiedere a Cesare Battisti se conoscesse davvero le sue vittime, se ha mai riflettuto su questo passaggio e se nella sua infinita fuga si è mai soffermato a pensare a chi, oggi, non c’è perché lui ha deciso che non ci fosse. Io c’ero dentro quei maledetti anni e sono orgoglioso di averli vissuti dalla parte giusta: quella degli uomini che riflettono, provano a comprendere, quelli che amano davvero la parola “comunista” che rimane, per me, il crogiolo di idee dove le donne e gli uomini si ritrovano per discutere, incazzarsi, decidere, abbracciarsi. Quel luogo che è il condensato di piccoli valori utili alla sopravvivenza e al rispetto per gli altri. Io c’ero. E nel 1978 ero comunista nel senso letterale più alto e più bello. Ero comunista come Guido Rossa, come Enrico Berlinguer, come Amendola, come Ingrao. Ero comunista come Pasolini, come Marquez e come le poesie di Leopardi che disegnavano la bellezza. Cesare Battisti diceva di combattere per il comunismo. Ma non era un comunista. Era solo un assassino, un egoista cieco e distruttore di sogni. Io c’ero e ve lo posso confermare: Cesare Battisti era un mio acerrimo nemico e che oggi debba scontare la pena in carcere mi appaga per tutti gli errori e per tutto il male che ha distribuito. Però osservo che c’è una costituzione scritta con il sangue dei nostri patrioti e spero che anche Cesare Battisti, dal carcere, possa iniziare un lungo percorso per comprendere i suoi errori, per comprendere tutto il male che ha fatto alle vittime, al paese, a me. Si, anche a me. Quel mondo su cui ha sputato era quello che volevo cambiare. Come tutti gli adolescenti e come tutti gli idealisti. Ha ucciso quel mio sogno e giuro: non è cosa da poco.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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