L’altra sera una domanda del Tg5 ha catturato assolutamente la mia attenzione (non guardo mai il Tg5 ma ero fuori a cena, in una casa dove lo guardano sempre). Si parlava del pestaggio mortale ad Alatri: titoli iniziali, la chioma e il gesticolare disordinato dello psichiatra Vittorino Andreoli sullo schermo, la seguente domanda in sovrimpressione: “Perché tutta questa violenza?”. Non so cosa abbia poi spiegato Andreoli nel servizio del telegiornale. Io ho subito obiettato, tra me e me, che una certa percentuale di violenza è sempre esistita, in qualunque società, così come i balordi e i branchi feroci. Qualcuno di voi ricorda la morte atroce di Desirée Piovanelli, quattordici anni, uccisa nel settembre del 2002 a Leno, in provincia di Brescia, da tre adolescenti italiani ed un adulto? Ogni fatto del presente ci sembra eccezionale e senza precedenti, perché facilmente rimuoviamo quelli del passato. Ma non è questo il punto, il punto è nella domanda che avrei voluto porre io al titolista. Questa: “Quanto, questa violenza, è a sua volta figlia della violenza che domina giornali e telegiornali?” Mi è venuta in mente, questa domanda, perché i media hanno una certa ritrosia a parlare di loro stessi, come se non appartenessero al mondo che raccontano, come se non avessero alcuna influenza su quel mondo e come se non contribuissero in qualche modo a determinarlo. Ricordo lo spezzone in bianco e nero di una vecchia trasmissione Rai, primi anni settanta, Enzo Biagi che intervistava Pier Paolo Pasolini. E Pasolini che denunciava, quarantacinque anni fa, lo strapotere dei media, perché se uno parla in televisione o scrive sul giornale pare abbia più ragione, qualunque sciocchezza dica. È verissimo. Per questo il potere di parlare davanti ad una telecamera o di scrivere sulla prima pagina del giornale dovrebbe essere usato con prudenza e avendo ben chiari gli effetti che può scatenare. Quando, di sfuggita, mi capita di vedere quell’arena politica che mandano in prima serata su Retequattro, mi chiedo quanto davvero serva all’informazione, se quelle folle che schiumano rabbia siano davvero la rappresentazione fedele dell’Italia, se davvero i nostri mali peggiori siano gli immigrati e i furti e se le soluzioni siano barriere ai confini e armi libere per tutti per poter sparare a chiunque entri nelle nostre case, come questa televisione sembra suggerire. A cosa serve? A me sembra quasi sempre solo violenza gratuita, cerini buttati sulla benzina di animi surriscaldati, dentro la polveriera di questa rabbia latente, spesso immotivata, che ha bisogno di un pretesto per esplodere, magari di un opinionista che racconta un’Italia sotto l’assedio di immigrati, kamikaze islamici, banditi e picchiatori di strada. Sarò più esplicito. Filippo Facci, diventato giornalista scrivendo per il quotidiano socialista L’Avanti le cronache giudiziarie ai tempi di Mani Pulite, questo ha scritto su Libero il 28 luglio 2016: “Io odio l’Islam, tutti gli islam, gli islamici e la loro religione più schifosa addirittura di tutte le altre, odio il loro odio che è proibito odiare, le loro moschee squallide, la cultura aniconica e la puzza di piedi, i tappeti pulciosi e l’oro tarocco, il muezzin, i loro veli, i culi sul mio marciapiede, il loro cibo da schifo, i digiuni, il maiale, l’ipocrisia sull’alcol, le vergini, la loro permalosità sconosciuta alla nostra cultura, le teocrazie, il taglione, le loro povere donne, quel manualetto militare che è il Corano, anzi, quella merda di libro con le sue sireh e le sue sure, e le fatwe, queste parole orrende che ci hanno costretto a imparare”. Facci e chiunque altro possono naturalmente scrivere quel che vogliono. Ma io mi chiedo se questo sia un uso responsabile del potere che un giornalista detiene e se, oggi, non debba essere richiesto un uso ancora più misurato di questo potere. Non significa censura, significa buon senso. Sarà ancora più esplicito. Il giornalista e conduttore Mediaset Gianluigi Paragone che invita i detenuti del carcere di Sassari a fare la festa ad un bullo, reo di aver pestato un disabile a San Teodoro, mi sembra la dimostrazione netta che i media e i suoi protagonisti non si limitano a raccontare la violenza della società, ma possono diventarne una delle concause. Sono i mezzi di comunicazione che creano l’opinione pubblica, da due secoli a questa parte. Sono formidabili strumenti di democrazia, hanno contribuito a migliorare la società diffondendo gli ideali egualitari dell’illuminismo, hanno reso più consapevoli le comunità. Ma quando la loro missione si riduce allo strillare titoli per vendere qualche copia in più o per far impennare l’audience, anche a costo di manipolare la notizia, o il loro contributo al dibattito significa dar voce a opinionisti esagitati che aizzino gli istinti più bassi, ecco che i mezzi di comunicazione danneggiano la società e diventano, per la loro parte, responsabili di quella violenza di cui vorrebbero cercare le cause. Guardando sempre e solo oltre le pareti di una redazione.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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