E’ una vecchia storia. Per chi di carcere ne mastica e per chi in carcere ci vive. Le lunghe file, quasi interminabili, per poter far visita ai propri cari nei penitenziari italiani. File lunghissime, estenuanti, che durano ore o, come nel caso di Poggioreale, a Napoli, anche un giorno intero. Bambini, donne, anziani, in attesa di poter varcare la soglia della galera per poter stare un’ora con il proprio marito, figlio, padre. Una vergogna. Se ne parla soprattutto durante le feste natalizie dove le visite sono massicce e dove, davvero, servirebbe un momento di dolcezza, tenerezza o, al massimo di normalità. Che non è concesso. Per i controlli, certo. So benissimo che occorre effettuare delle verifiche con molta attenzione: dalla validità dei documenti alla verifica di quanto i familiari provano a portare con i famosi “pacchi”. Certi generi non possono varcare le soglie del carcere e ci vuole professionalità e attenzione affinché non venga occultata della sostanza stupefacente o oggetti pericolosi all’interno della frutta, della carne o delle merendine preconfezionate. Tutto questo è vero e se ne deve tenere assolutamente conto. Si potrebbe provare con una piccola e semplice rivoluzione che in molti istituti penitenziari è stata utilizzata e con un discreto successo: la prenotazione del colloquio e la dilatazione delle ore che non possono essere limitate solo a certe fasce (due ore al mattino e due ore al pomeriggio) e a certi giorni. Si provi ad aprire la sala colloqui tutti i giorni, festivi compresi (lo prevede il regolamento) e si dia la possibilità ai familiari di prenotare per tempo (anche da settimane) il colloquio attraverso il telefono o anche su internet. Direte: ma con tutti i problemi che abbiamo dobbiamo occuparci anche di questo? Si, lo Stato si deve occupare soprattutto di questo. Fa parte del carrello della dignità dei propri cittadini – di tutti i cittadini, detenuti e familiari compresi – e anche questo fa parte della sicurezza del paese, quella parola in bocca ai nostri politici quasi quotidianamente ma utilizzata solo per cacciare qualche uomo senza permesso di soggiorno. La sicurezza di un penitenziario (e quindi dello Stato) si misura dal tasso di dignità che si riesce ad offrire al suo interno. Se il detenuto vede che i suoi diritti sono garantiti è più probabile che sia disposto a vedere con una luce diversa i propri doveri. Si chiama etica e vale anche nei penitenziari italiani.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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