pubblicato il 31/1/2015
La storiografia della Sardegna, sin dai tempi del canonico Spano e anche prima, è un continuo procedere scrostando, di tanto in tanto, origini fenice di cose che poi, in realtà, si scoprono essere autoctone e, in particolare, di provenienza nuragica.
Questa feniciomania, insieme alle altre, tante, troppe manie alloctone che hanno caratterizzato la storiografia sarda, è una resistenza di un mondo accademico conservatore, favorito, peraltro, da una politica nazionale sempre orientata a concentrare nei maggiori centri culturali e di potere le migliori attenzioni.
Il problema storiografico di un’isola che, situata nel Mediterraneo occidentale, nell’antichità fungeva da centro di irradiazione culturale, economica e militare, sconvolge quella visione storica classica che concepisce l’antichità come un perenne flusso che dall’oriente giunge verso occidente.
Un problema, insomma, dover rivedere tutto quando.
E così tutto quello che si rinviene in Sardegna, proviene dall’estero.
Solo quando quello che si scopre è più antico che altrove, allora diventa problematico farlo provenire da fuori.
E’ il caso delle statue di Mont’e Prama. Tra le prime statue a tutto tondo del Mediterraneo, è più facile che le dichiarino finte che ammettere che in Sardegna ci fossero maestranze in grado di scolpirle. Maestranze venute da fuori, si sente spesso ripetere. Però fuori non ci sono tracce di statue così antiche.
Ora è la volta della scoperta, sensazionale, della viticoltura nuragica.
Facciamo però un passo indietro, per capire.
La scoperta del centro nuragico di Sa Osa, in un sito vicino a Mont’e Prama, conferma altre acquisizioni scientifiche sul tema. La scoperta, opera degli studiosi dell’Università di Cagliari, dopo tutti gli accertamenti scientifici della comunità internazionale, è stata pubblicata il 14 dicembre del 2014 in una importante rivista archeobotanica in lingua inglese.
Il vino compone la cosiddetta triade mediterranea, insieme al grano e all’ulivo. Su questi tre elementi del ciclo agrario, si è fondata tutta la civiltà mediterranea, tanto che gli stessi assurgono ad elementi fortemente simbolici, persino sacri, del moderno immaginario collettivo occidentale.
L’importanza del vino nell’antichità è testimoniata come importante componente alimentare, come genere di conforto fondamentale per superare la sofferenza e la fatica di epoche dure, con tutta la ritualità nell’ambito del sacro che perdura fino ad oggi.
Inizialmente un antenato del vino si ricavava dalla vite silvestre a partire dalle zone iraniane, caucasiche e nella valle del Giordano; poi, gradatamente, si incominciò a coltivare la vite, mutando, con la cultivar vinicola, persino il sistema riproduttivo dell’arbusto rampicante presente nei boschi della fascia temperata, da dioico a monoico.
Il ritrovamento di semi di uva perfettamente conservati a Sa Osa, risalenti, secondo le analisi con il carbonio 14, a oltre tremila anni fa, epoca della maggiore espansione della civiltà nuragica, si inserisce nel dibattito sull’origine della domesticazione di questo rampicante, confermando la teoria che sostiene che la pianta sia stata coltivata indipendentemente sia in Oriente che nell’Occidente.
Diversi studi però avevano avuto modo di verificare la presenza, in Sardegna, di indizi e prove che facevano ritenere l’isola, in epoca nuragica, un importante centro di coltivazione della vite e, in particolare, con la paternità di varietà giunte fino ai giorni nostri.
Tanto per incominciare, la presenza di brocche sarde contenitrici di vino che si irradiano dall’isola, o le analisi archeobotaniche che mostrano, nel Sinis, la presenza della vite a scapito di altre piante selvatiche.
Per chi vuole approfondire questi aspetti è sufficiente andare sul sito internet Monte Prama Monte Prama Il vino nuragico
In particolare, nel 2010, furono trovati vinaccioli carbonizzati durante gli scavi del Nuraghe Arrubiu di Orroli, risalenti al 3000 aC, assimilabili ad una varietà di vino ancora presente nell’isola, il Bovale Sardo o Muristellu.
E tuttavia, in un mondo, quello enologico, dove gli aspetti commerciali sottendono una guerra di prestigio e di rivendicazione dell’autenticità dei vitigni, quella scoperta fu trascurata e anche ridicolizzata nei convegni enologici, specie dai maggiori centri di produzione italiana ed europea.
Ora viene un po’ male, però.
Sono stati rinvenuti i vinaccioli perfettamente conservati in delle fosse asettiche inventate dagli antichi nuragici per la conservazione del cibo. Tra l’altro, oltre ai semi della vite, erano presenti carne di animali come il cervo, e semi di altre piante utili all’uomo, tra cui, fatto importante, l’ulivo e il melone. Anche quest’ultima cucurbitacea si riteneva proveniente dall’Oriente.
Le migliaia di semi di vite, oltre ai residui delle altre piante, descrivono un mondo nuragico non solo fertile e ricco di boschi e di prodotti naturali (tesi peraltro sostenuta nel mio “Colpi di scure e sensi di Colpa”, sul disboscamento della Sardegna), ma, a differenza di quanto hanno sempre sostenuto gli archeologici della scuola tradizionale, descrivono una società non esclusivamente pastorale, dove la cultura della vite e dell’ulivo, oltre a quelle delle leguminose e dei cereali, era già sviluppata.
La grande novità sensazionale della scoperta, oltre allo stato eccezionale di conservazione dei reperti, è data dalla somiglianza con i vinaccioli con alcune varietà di vino tipicamente sarde, come la Vernaccia e la Malvasia. Lo screening dei semi recuperati nell’archeofrigo ha, in un certo senso, ripercorso la storia della vite sarda, da quella selvatica fino alle prime cultivar.
Ecco dunque che questa scoperta conferma alcune visioni storiografiche piuttosto rivoluzionarie. Il fatto che l’Oriente non era l’unico centro di irradiazione del mondo antico e che, nell’Occidente, la Sardegna rappresentasse un importante fulcro di irradiazione che si poneva in termini di scambio e di dialettica con l’Oriente. Che la civiltà nuragica, oltre a rappresentare questo fulcro importante per lo sviluppo del Mediterraneo antico, non fosse quella descritta dalla scuola archeologica tradizionale, quella delle fortezze in guerra tra loro e dei pastori con la mastruca chiusi nel loro isolamento.
Fatto non meno importante, che approfondiremo prossimamente, che nella guerra commerciale dei vini la Sardegna, con i suoi prodotti, peraltro, in grande crescita nel mercato internazionale, si pone con una nuova caratura e con la forza di una tradizione che proviene da un passato che pochi, forse nessuno, può vantare. E non è roba da poco, in un mondo dove la tradizione ha un grande peso.
Naturalmente, come nel caso dei Giganti di Mont’e Prama, o dei Shardana, neppure l’evidenza, spesso, riesce a scrostare i muri dell’ottusità e di certi interessi e rendite consolidate.
Ragione per cui, anche in questo caso, non mi stupirei di sentire che i vinaccioli di Sa Osa siano finti, o provenienti dallo spazio.
(foto: Centro Conservazione della Biodiversità – Università di Cagliari)
pubblicato il 12 agosto 2015
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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