Un mio anziano parente ha espresso il desiderio di possedere uno smartphone. Sentiva tanto parlare dei social network, gli sembravano un mondo lontano e affascinante, forse non del tutto irraggiungibile anche per chi come lui ne fosse totalmente digiuno.
Lo smartphone è stato il mio regalo di Natale per lui. Un regalo scelto con una punta di interesse sociologico e didattico: volevo capire come se la sarebbe cavata con i nuovi canali di comunicazione un ultrasettantenne nato in uno stazzo senza corrente elettrica e volevo mettermi alla prova anche io, cercando di insegnargliene un uso anche solo elementare.
Così gli ho aperto un account Facebook e gli ho installato whatsapp. Ho cercato di spiegargli come meglio potevo le azioni di una comunità virtuale: status, amicizie, mi piace, messaggi. Mentre lo addestravo, leggevo nei suoi occhi l’eccitazione per le possibilità che il mezzo gli offriva e il timore di non riuscire a maneggiare quella che gli appariva una incredibile meraviglia.
Per una settimana è venuto a casa a chiedere aiuto almeno tre o quattro volte al giorno – quando il telefono si ribellava ai comandi – piuttosto sfiduciato sulle sue capacità di apprendimento.
Quando ormai pensavo al fallimento ho ricevuto un suo messaggio su whatsapp, nel cui testo si leggevano la felicità e l’orgoglio per esserci riuscito. Infine, ieri sera ho letto il suo primo post su Facebook, strutturato col lessico semplice di chi non ha avuto modo di studiare molto in vita sua.
Riassumeva in poche ed essenziali parole il suo passato, il suo presente, le passioni e i passatempo di un’esistenza approdata sul viale del tramonto. Chissà quanta fatica gli dev’essere costato allineare quei pensieri, ma quanto grande dev’essere la sua voglia di sentirsi parte di questo nuovo mondo, anche lui a suo modo protagonista.
Ho pensato anche a tutte quelle volte che ho riso per gli strafalcioni nella scrittura di gente sconosciuta, senza rendermi conto del sacrificio e del coraggio che servono a chi la scrittura non l’ha praticata tanto, ma sente comunque il bisogno di dire qualcosa. Se qualcuno sfottesse il mio attempato alunno per la sua grammatica zoppicante, gli metterei le mani addosso.
Comunque, forse per la prima volta nella sua vita, quella piccola diavoleria elettronica ha permesso al mio parente di esprimersi, raccontarsi, stabilire dei contatti che non sono solo virtuali, perché ci vuole un attimo a trasformarli in una chiacchierata o un incontro. È stato un po’ come vedere un figlio che impara a camminare e sono stato felice di avergli regalato qualcosa di mio. Soprattutto il tempo e la fiducia di insegnargli che si può imparare sempre, anche quando si teme che il tempo sia ormai scaduto. Lui continuerà a rispettare i suoi ritmi e certe abitudini consolidate: chiacchierare con gli altri pensionati nella piazza del paese e andare in compagnia alle feste campestri. Ma, quando lo vorrà, potrà raccontare al mondo le sue impressioni di uomo semplice, nato tanti anni fa in uno stazzo della Gallura senza corrente elettrica.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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