Che lo spettro della xenofobia si aggirasse per l’Europa facendo soste prolungate nell’accogliente Italia, era risaputo. Difficile immaginare l’opposto in un momento in cui, come evidenziato dal rapporto 2013 dell’Agenzia Europea per i diritti fondamentali, l’arrivo di richiedenti asilo e rifugiati da Siria e altre zone di crisi, inizia a interessare zone tradizionalmente non mete privilegiate d’immigrazione – Bulgaria e Ungheria – non risparmiando nemmeno i civilissimi paesi del Nord Europa, non più immuni al virus dell’intolleranza. Aggiungi il rischio ebola e la nuova psicosi è pronta ad esplodere. Tuttavia, come emerge dalla lettura del rapporto, la singolarità dell’Italia si esprime nel momento in cui a veicolare i messaggi di intolleranza non sono comuni cittadini, ma esponenti politici e altre personalità pubbliche. Le Lega Nord è, in questo senso, l’esempio classico al quale far riferimento. Nella compilazione del prossimo rapporto i relatori avranno però, per una volta, materiale nuovo dal quale attingere, ricorrendo al microcosmo del mondo del calcio, non nel suo sottobosco di curve e relativi capetti, ma dallo strato superiore, quello dei suoi dirigenti in giacca e cravatta. Quel mondo che negli ultimi giorni ha regalato delle perle di fronte alle quali il classico motto leghista, quel “Chi non salta clandestino è”, suona oramai datato come un disco di Albano. L’arretratezza culturale dei dirigenti italiani, con tutto quel che ne consegue, sta tutta lì, in quelle frasi dei vari Ferrero e Tavecchio. Quelli che, col loro mestiere dovrebbero conoscere almeno un po’ come funziona il mondo che cambia. Invece no. Il mondo, per i dirigenti e gli imprenditori italiani con la passione del pallone è quello in cui un collega indonesiano è apostrofato come fosse un factotum filippino da rispedire a casa, tanto che differenza fa, sempre di quello che ancora chiamiamo Terzo Mondo, parliamo. Eppure, questi cicciobelli made in Asia, tanto male non se la cavano, in questo mondo che cambia. Parlando di numeri e statistiche a cui i nostri imprenditori dovrebbero essere avvezzi, l’Indonesia è un dei maggiori centri di attrazione per gli investimenti del Sud Est asiatico, appena dietro Cina e le tigri Hong Kong e Singapore. Nella classifica del World Economic Forum sulla competitività i connazionali di Thohir si piazzano al 39° posto. Noi, consumatori seriali di pizza e suonatori di mandolino, li guardiamo dal 49°, tallonati dal Kazakistan, dal Costa Rica – noto produttore di banane, questo Tavecchio lo saprà bene – e guarda un po’, anche dalle Filippine. Per chi dovrebbe investire, ci dice la Banca Mondiale, siamo attrattivi più o meno come Ghana e Trinidad e Tobago. Qualcuno avverta questi signori che la Terra è tonda e che gira. E ora il Terzo Mondo non è più là. Il Terzo mondo siamo noi.
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