Che in un torneo del Grande Slam, gli US Open femminili, giungessero in finale due italiane, è un evento eccezionale, mai successo nella storia. A maggior ragione se pensiamo che le due italiane provengono dalla stessa regione, la Puglia. L’idea che il meridione d’Italia produca solo femminucce da focolare, scompare di fronte alla grinta di Roberta Vinci, che sgretola la gigantesca energumena americana, la padrona di casa Serena Williams, numero uno del mondo, mentre Flavia Pennetta, che riesce ad unire grazia e potenza in un solo gesto atletico, aveva in precedenza sconfitto la numero due del mondo, la rumena Halep. Lo sbotto della Vinci al pubblico americano, dopo una grande scambio, “applaudite anche me, cazzo!”, detto col sorriso sulle labbra, è una esortazione alla sportività nel mondo che vuole infrangere le frontiere. E scusate la parolaccia, ma quando ci vuole ci vuole. Numero uno e numero due del mondo, sconfitte da due italiane che, in realtà, sono concentrate tutte e due sul tacco dello stivale. Lo sport viene preso, spesso, come metafora più generale del corso delle cose. Come si dovrebbe interpretare, allora, questo exploit incredibile, tutto italiano e, persino, meridionale, ovvero della parte più problematica di un paese già problematico? Secondo me va interpretato semplicemente come il frutto non solo del talento, che quello, se vogliamo, non manca nel paese e forse da nessuna parte del mondo, ma di un movimento che funziona. Il tennis femminile funziona, visto che ha vinto 4 Fed Cup, il campionato mondiale per nazioni, e che ha prodotto, negli ultimi anni, oltre alle due protagoniste pugliesi, anche altre campionesse come la Schiavone, la Errani e altre ancora. Aveva solo 13 anni quando Roberta Vinci si trasferì a Roma, al centro federale, ad allenarsi mattina e sera. Il tennis femminile funziona, meno quello maschile. Così come funziona il nuoto, la scherma, gli sport olimpici in genere, gli sport di squadra tra alti e bassi, e non funziona, invece, la regina degli sport, l’atletica leggera, che sconta un deficit, piuttosto chiaro, di investimenti e programmazione. Per far funzionare lo sport, sintomo del grado di civiltà di un paese e anche il più importante veicolo di promozione dell’immagine nel mondo (cioè una roba, per capirci, che porta soldi e aiuta l’economia), occorrono investimenti seri e progettazione. Occorre impegno, insomma. Quando c’è programmazione seria e investimenti, le cose funzionano. E questo vale nel mondo dello sport come nella scuola, nella sanità, e in tutti i campi dell’umano scibile. So che non c’entra nulla con lo sport. Ma l’idea che, in questo momento, tra tarallucci e vino, orecchiette alle cime di rapa, e pasticciotti gonfi di crema, in Puglia, si stia festeggiando questo risultato, mi mette un sano appetito. Corro ad onorare questa impresa.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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