La purpuzza è come il polpaccio della ballerina di tango. Ti si avvolge intorno alla lingua come la sua gamba si avvolge alle tue gambe. La scossa guizza e arriva dove deve arrivare.
Al Festival letterario di Gavoi non sei figo se non mangi il panino con la purpuzza.
Mi rivoltavo in bocca l’ultimo boccone prezioso di maiale tritato, mentre dietro l’angolo di muro dipinto di pastori e banditi faceva capolino l’eco del bandoneon. Erano lì a provare, danzatrice e suonatore, sotto il terrazzino più fiorito del Festival, quello dove di lì a poco Cosentino avrebbe letto il suo incipit.
Gavoi al Festival diventa un pop up, uno di quei libri che schiudi e le figure saltano fuori dalle pagine. Solo con un pop up tu puoi realizzare il sogno di aprire una porta disegnata sul muro e scoprire che cosa c’è dietro.
Ce n’erano mille, di scrittori, a Gavoi. Ma il grande argentino era l’atteso. Come ogni anno avrebbe declamato le prime righe del nuovo romanzo mentre sotto il balcone la tanguera avrebbe ballato sola, seducendo a occhi chiusi il compagno inesistente. Poi Cosentino avrebbe bevuto le lacrime e gli evviva del pubblico. In silenzio, con il viso impassibile e feroce del danzatore di tango. In realtà è lui il compagno invisibile che la ballerina solitaria lì sotto ancora cerca. E infine si sarebbe ritirato, lasciando al professore, al giornalista, all’intrattenitore culturale di professione o a chi cazzo volete voi il compito di presentare il libro. Cosa verso la quale Cosentino mostrava disprezzo. Per non parlare delle domande del pubblico. Due anni prima si era lasciato convincere a restare sul balcone per rispondere. La prima era stata una vecchia asfaltata di cerone e strizzata in un pantacollant; con l’aria di volere scoprire un segreto birichino, gli aveva urlato dalla piazza affollata
-Quando ti è venuta l’idea di questo libro?
-Dammi del lei, vieja putarrasca.
Ed era rientrato sbattendo le ante.
Lasciare la piazzetta per comprarmi il panino significava perdermi lo show, perché fra pochi minuti quello spazio angusto sarebbe stato saturo come la metropolitana quando la City va a dormire.
Che palle Londra! Due anni di ricerca nei quartieri intorno alla St. Peter’s Italian Church, a scovare tracce di Mazzini e di tutti gli esuli politici italiani per un saggio che ora, dopo due anni di bonifici mensili dell’università, avrei dovuto avere già scritto.
Al diavolo anche questo presuntuoso argentino. Io il panino me lo compro e me lo mangio. Se in piazza non ci sarà posto per me, pazienza. Cos’è Gavoi senza la purpuzza, senza i primi piatti di Santa Rughe, senza la colazione a caffelatte zuccherato e biscotti sardi nell’alloggio preso con quattro amici? Quello dove ti devi alzare presto per guadagnarti una decente seduta al cesso e una doccia ancora calda, perché il bagno è uno soltanto.
E ancora pensavo così quando quel tale mi rivolse la parola.
-Forse potrei esserle utile.
Grassoccio e bassottino, ma un che di marziale, forse il modo di stare su con la schiena, ne faceva un bell’uomo di oltre cinquant’anni. Capelli lunghi, folti e ricci separati da una scriminatura e lunghi baffi arrotolati in punta e tenuti all’insù da qualche pomata. Indossava una giacca marrone dalle larghe falde, sembrava una di quelle redingote che tante volte avevo osservato sui dagherrotipi frugando nelle soffitte delle case italiane a Londra.
E teneva per mano un bambino in divisa. Quella sì, la riconobbi subito. Era dell’esercito sardo piemontese. Di figure con quelle uniformi ne avevo viste miliardi nei miei studi di Storia del Risorgimento. E avrei detto che quella caricatura di soldatino fosse un qualcosa di prima dell’Unità, uno dei tempi di Carlo Alberto.
Sotto la visiera del chepì spuntava un faccino da dodicenne, forse anche meno, un colorito scuro, due occhi neri e luccicanti.
Affidava obbediente la manina a quel signore con i baffoni: composto, marziale anche lui, il piccolo, tetragono alle mille distrazioni del circo equestre di Gavoi nei giorni del Festival.
Passò di corsa un gruppo di giovani animatori che srotolavano lunghe strisce di tessuti colorati facendole schioccare al vento. Una di loro, una biondina, sfiorò il bambino, al volo gli stampò un bacio sulla guancia e sfrecciò via senza voltarsi, ma lui perse l’equilibro e sarebbe caduto se io e il suo accompagnatore non fossimo scattati insieme a tenerlo.
Fu allora che mi accorsi che indossava solo lo scarpone destro. A sinistra nulla. Neppure il piede. Dal pantalone spuntava l’estremità di una protesi che avrei detto applicata sopra il ginocchio. Manovrando la gamba dritta di legno e con quella buona si rimise in equilibrio tenendosi ben stretto alla mano dell’uomo. E gli disse con una vocina educata ma fiera, indicando la gamba finta.
-Mi scusi, ancora non ci sono abituato.
-Ma benedetto ragazzo, sono quasi centocinquant’anni che ce l’hai!
-Se è per questo, di più. Ho fatto il mio possibile.
-Non copiare dal libro. Tanto non mi commuovi.
Poi l’uomo si rivolse a me, cortese.
-Scusi, neh, non ci siamo ancora presentati. Io sono Edmondo De Amicis e questo birbante sarebbe il Tamburino Sardo.
Gli strinsi la mano sporcandogliela un pochino di purpuzza e feci una carezza al bambino.
-Mi fa piacere conoscervi. Tu poi, Tamburino, sei un eroe che illustra la nostra isola.
Lui sorrise e chinò il viso modesto. Poi guardò la mano con la quale lo avevo accarezzato.
-Son contento. Ma guardi lei, con licenza, signor capitano, che perde sangue.
Volsi gli occhi stupito alla mia mano.
-Bambino, non è sangue. E’ il sugo della purpuzza. Ma perché… “signor capitano”?
-Vuol che le dia una stretta io alla fascia, signor capitano? Porga un momento.
Allontanai la mano dal bambino che cercava di afferrarla e chiesi sottovoce a De Amicis.
-Ma è scemo? I crucchi oltre che alla zampa lo hanno inzertato anche in testa?
Poi ebbi un’illuminazione.
-O, Dio non voglia, mi sta prendendo per il culo?
Lo scrittore mi fece segno di tacere e blandì il piccolo.
-Tu adesso ti siedi buono buono qui mentre io vado con il professore a quel bar.
Lo sistemò su una panchina di granito e gli consegnò con gesto solenne una lunga stecca di surrogato industriale di cioccolato.
-Ti mangi questa porcheria e stai attento a non fare inciampare con quella gamba diritta chi ti passa dinanzi.
-Si fidi di me, signor capitano.
– Ma vattene a fare in culo – borbottò De Amicis voltandogli le spalle e prendendomi sottobraccio.
Facemmo qualche passo in silenzio poi si arrestò e mi guardò.
-Non fa altro che citare quel Racconto Mensile. A proposito e a sproposito. E’ estenuante.
-E’ comprensibile, poverino. Lei ne ha fatto uno storpio per l’eternità. Eroe ma storpio. Io penso che se l’avesse messo a scegliere, avrebbe preferito tenersi la gamba. Gli lasci almeno la vanteria di autocitarsi.
-Ma quale autocitazione! Il vero Tamburino non è lui.
Restai in silenzio sino a quando non raggiungemmo l’unico tavolino libero del bar. Dietro l’angolo, il volume del tango era già meno impetuoso, il bandoneon non doveva coprire la voce di Cosentino, che da un momento all’altro sarebbe uscito dal balcone per declamare.
-Mi dispiace che se lo perda – mi disse De Amicis.
La folla straripava dalla piazzetta.
-Tanto non sarei riuscito ad avvicinarmi. Sembra che a Gavoi ci sia solo lui.
-E’ davvero bravo?
-Non saprei, ne conosco solo gli incipit che legge qui ogni anno.
-Pensa che potrei affacciarmi a quel balcone a declamare a suon di tango l’attacco del mio Cuore? “Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna!”.
-Magari si scelga un altro accompagnamento. Che so, Branduardi a esempio. Avete entrambi la tendenza a dire “caro diario” e a tenere i capelli lunghi.
Lui fece un sorriso educato, ma si capiva che non sapeva chi fosse Branduardi. Ordinammo due birre mentre dall’altra parte della strada vedevamo il Tamburino che ogni tanto faceva inciampare un passante con la zampa di legno e a ogni caduta si scusava dicendo
-Piangevo dalla rabbia a pensare che ad ogni minuto di ritardo se ne andava uno all’altro mondo.
Quelli si rialzavano e lo guardavano strano. Poi notavano la protesi e lasciavano perdere.
-Mi sa che è meno deficiente di quello che sembra.
-No, no: è proprio cretino. E mi perseguita dal 1886, da quando è uscito Cuore. Sostiene di essere il Tamburino Sardo perché ha perso una gamba e perché è nato dalle vostre parti.
-In effetti, la gamba assente, la divisa, l’accento del luogo…
-Ma quale accento del luogo! Perché, anche lei crede che il Tamburino sia davvero sardo?
-Ma cosa dice?
-Dico che io ho scritto “sardo” per dire dell’esercito sardo piemontese. Poi poteva essere di qualsiasi località di quello Stato. Anche della mia Liguria. Io vorrei che lei, un professore sardo studioso di storia, mi aiutasse a farglielo capire. E io mi sdebiterei dandole delle informazioni inedite sui mazziniani a Londra. Sa che la giovane moglie di un noto arruffapopoli la notte usava uscire nuda di casa e… Basta! Le dirò tutto quando lei farà ciò che le chiedo.
Quel maledetto massone socialista mi aveva preso per la gola facendomi odorare quell’aneddoto. Era una storia a cui davo la caccia da anni e che avrebbe potuto spiegare alcuni misteri del viaggio di Garibaldi in Inghilterra. Ma non avevo trovato un solo documento. Solo tradizioni orali che potevano essere chiacchiere di beghine.
-Lei su quella leggenda avrebbe anche… come dire, roba scritta?
Sorridendo sotto i baffoni, infilò le mani nelle capaci tasche interne della redingote e tirò fuori un grande portafogli di pelle morbida. Sciolse la cordicella di cuoio e lo schiuse il giusto per lasciarmi intravvedere certi fogli ingialliti su uno dei quali spiccava l’autografo inconfondibile dell’Apostolo del Risorgimento, oltre ad alcuni disegni al tratto che raffiguravano una donna. Richiuse con gesto fulmineo e mi guardò serio.
-Se lei mi toglie dai coglioni quel ragazzino, questa roba è sua.
Ci pensai mentre con un sorso di birra mi ripulivo la bocca dal ricordo ormai rancido della purpuzza. Non ricordavo bene quel Racconto Mensile di Cuore, ma avevo l’impressione che l’autore volesse proprio parlare di un Tamburino della Sardegna. Dal mio borsone tirai fuori l’ereader . A Gavoi c’era un wifi pubblico, mi collegai e scaricai un’edizione di Cuore. Cercai e infine mi rivolsi all’autore.
-Ecco qui, stia a sentire: “… e c’era con essi un tamburino sardo, un ragazzo di poco più di quattordici anni, che ne dimostrava dodici scarsi, piccolo, di viso bruno olivastro, con due occhietti neri e profondi, che scintillavano”. A parte che la descrizione corrisponde alla perfezione a quel rompicoglioni che proprio adesso ha fatto cadere uno con una faccia da delinquente che potrebbe volere rifarsi con noi, lei sembra parlarne come di un tamburino che proprio viene dalla Sardegna.
Mi strappò di mano il lettore di ebook.
-Faccia vedere! Maledizione, questo passo non me lo ricordavo.
Lesse ancora, stette un po’ a pensare e infine tentò di argomentare.
-D’altro canto non è chiarissimo. Io potrei avere voluto ribadire che nonostante la giovane età era proprio un vero soldato, un tamburino dell’esercito sardo piemontese. Inoltre è più probabile che fosse del nord Italia, perché nel ’48 la coscrizione obbligatoria in Sardegna c’era e non c’era e lei si immagina un ragazzino così che va volontario e…
Lo interruppi bonario.
-Edmondo, lei si arrampica sugli specchi
Chinò gli occhi e li risollevò subito dopo per guardare con odio il Tamburino. Ora aveva fatto cadere con la gamba dritta la scrittrice più velenosa del panorama italiano, che passava lì circondata dalla sua corte. E le diceva: “Ma è stato un brutto discendere dopo quella carezza! Morivo dalla sete, temevo di non arrivare più”.
Lei rialzandosi si accorse della protesi.
-Non ho capito. Hai sete, poverino?
-Ho avuto un bel correre gobbo, m’han visto subito.
E con un improvviso movimento della gamba artificiale la fece cadere di nuovo. Lei si alzò nuovamente scacciando con gesto nervoso i cortigiani che già le afferravano le braccia per tirarla su e guardò il Tamburino in modo strano. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò e volse le spalle per andare via, mentre lui le gridava appresso.
-Arrivavo venti minuti prima se non mi coglievano.
La scrittrice si arrestò per un attimo senza voltarsi, poi scosse la testa e proseguì il suo cammino.
De Amicis si nascondeva il viso con una mano, era visibilmente turbato.
-Lo vede? Anche con una mia collega. Meno male che quella non mi ha riconosciuto.
– Ma lo fa apposta?
-Apposta? Ha cominciato a rompermi i coglioni dal giorno in cui è uscito Cuore. Me l’ho trovato a fianco e non riesco a liberarmene. Si esprime quasi soltanto con quelle due o tre stupidaggini che nel racconto ho fatto dire al Tamburino, oppure mi guarda con occhi tristi e di rimprovero e sta zitto. Se lo tengo lontano fa di tutto per combinare pasticci, come ora, di modo che vada a riprenderlo. Solo lei può aiutarmi. Lo convinca che il Tamburino non è lui, che io con la sua gamba mozza non c’entro niente.
– Ma la gamba l’ha persa davvero. E quella divisa?
-Gli avrà sparato qualche bandito di queste parti. Perché dovrebbero essere stati proprio gli uomini di Radeztky? E la divisa l’avrà presa in qualche cimitero.
-Lei mi giura che non è lui?
-Io le giuro che non stavo pensando né a un tamburino sardo, né a un piemontese o a un ligure. Io pensavo a un ragazzino in divisa che perde una gamba per fare il suo dovere. Di dove era nato non me ne fregava niente.
-Ma lei ce l’ha il vizio di nominare a tutti i costi i suoi personaggi usando un luogo.
-Cosa vuole dire?
-Dico il Piccolo Patriotta Padovano (con due t nel suo testo, ora non si usa più così), la Piccola Vedetta Lombarda, il Piccolo Scrivano Fiorentino e chi più ne ha più ne metta. Benedett’uomo, ma non le bastava dire Gianni, Luigi o Peppino? Non si sarebbe messo nei guai.
Si strinse tra le mani il viso chino a terra.
-E crede che non ci abbia mai pensato? Quante volte ho maledetto questo mio vezzo dopo che quello là mi è comparso a fianco. Ma ho ancora una speranza. Davvero potrei avere detto “sardo” solo per dire dell’esercito sardo-piemontese. E lui allora sparirebbe.
-Ma pensi a che cosa ha significato nell’epica della nostra terra. Ci sono vie e ristoranti intitolati a lui. Un importante scrittore sardo ha scritto la storia sua e dei suoi eredi in una saga di soldati sardi. E molti ormai travisano l’originaria versione eroica e ne hanno fatto un simbolo dei soldati sardi usati come carne da macello per quella e per ogni guerra. D’altro canto, anche lei, nel suo racconto, lo fa maledire dal capitano prima che questi lo baci “tre volte sul cuore”.
-Io?
-Lei! Doveva avere un sussulto di socialismo quando ha fatto urlare al capitano che scruta dalla finestra la corsa del piccolo: “Ammazzati, muori, scellerato, ma va! Ah, l’infame poltrone, s’è seduto!”. E invece l’avevano colpito i crucchi. Ma lui continuò a correre, sforzando la gamba ferita, per salvare i suoi, assediati nella cascina.
-E sa perché l’ho fatto?
Udimmo improvvisa la vocina alle nostre spalle. Ci aveva raggiunto zoppo zoppo e ci ascoltava reggendosi alla spalliera di una di quelle sedie con le cordicelle intrecciate di plastica colorata. Feci per aiutarlo a sedersi, ma rifiutò. Con gli occhi chiese un sorso di birra. Glielo versai e continuò a parlare in piedi, con parole sue, improvvisamente libero da quelle del libro. E disse.
-Correvo, correvo e vedevo sempre più vicine le nuvolette di polvere sollevate dal piombo degli austriaci. A un tratto sentii un morso alla gamba, come quando me l’aveva addentata il cane del vicino, a casa. Ma allora mi ero disteso a terra, era arrivata mamma, mi aveva accarezzato e mi aveva portato dal farmacista. Ora c’era solo piombo e il grido del mio ufficiale che, pure tra gli scoppi, avevo sentito dalla casa assediata:
“Maledetto, perché ti fermi? Vai, corri, maledetto”.
– Già, perché mi fermo? Perché la gamba mi duole, a esempio. Perché tu, piemontese, con quella scopa in culo, che mi guardi come fossi una bestia, mi rappresenti meno di qualsiasi pastore di casa mia. Mi fermo perché non voglio morire per gente come te.
Bevve un sorso di birra. Lo assaporò con aria da intenditore e guardò lontano, come chi vuole ricordare. E continuò.
-Ma poi, mentre le nuvolette di polvere si allontanavano da me e le giacche bianche degli austriaci si avvicinavano alla casa assediata, riflettei ancora. Ma se io faccio il vigliacco e non perdo la gamba, e i miei compagni li ammazzano tutti e De Amicis non mi mette nel “Cuore”, tutti diranno che quel bastardo di ufficiale aveva ragione e che i sardi di patria non ne capiscono niente. Sai cosa ti dico, ufficiale? Che adesso mi alzo, perdo la gamba e vinco la guerra. Ma contro di te e quelli come te che non sanno che noi sardi di patria ce ne intendiamo più di voi, proprio perché volete tenercene lontani. E zoppicando arrivai al comando piemontese che, come voi sapete, signori miei, inviò i rinforzi.
Al termine del monologo, che recitò senza un intoppo e con tutte le intonazioni e i tempi al posto giusto, si sedette e fece segno al cameriere. Questi si avvicinò per prendere l’ordinazione e fulmineo lui lo mandò a terra con la gamba. Ma questa volta usò quella buona.
Io ero esterrefatto per il racconto che avevo appena udito, ma De Amicis mi guardò sbuffando.
-Non ci creda, ogni volta che è alle strette tira fuori questa storia. Glielo dica lei che lui non è quello di Custoza, che è tutto un equivoco. Lo convinca a scomparire.
-E lei mi dà quei documenti su Mazzini e i disegni della donna nuda?
-Glielo giuro!
Aiutai il cameriere a rimettersi in piedi e fissai severo il Tamburino.
-Senti, ragazzino, mettiti comodo, smetti di fare scherzi con quella zampa e parliamo di una cosa molto seria.
Fu allora che scomparve.
No, non pensate a una nuvoletta di fumo o a una lenta dematerializzazione. Qui non siamo a Herry Potter, qui siamo al festival letterario di Gavoi.
Roba seria.
Scomparve come se non ci fosse mai stato. Come se sin dall’inizio io avessi parlato con la sedia vuota.
Guardai smarrito verso De Amicis. Scuoteva la testa.
-Bastardo, questo è l’altro trucco: quando qualcuno comincia a convincerlo che non esiste, allora si mette a non esistere davvero.
-Ma poi ritorna?
-Se non esiste come fa a ritornare?
-Quindi il suo problema è risolto.
-Risolto? Se le ho detto che è un trucco!
-Ma se… Oh, insomma: me lo dà o no quel materiale su Mazzini a Londra?
Mi allungò rassegnato il portafoglio.
Scorsi con impazienza febbrile le carte e i disegni.
Mi cadde l’occhio su alcune righe: la grafia di Garibaldi. Lessi
-Ma qui risulta che…
-Lo so.
-Ma questa è roba che cambia la storia del Risorgimento.
-E che spiega molte cose successe dopo, vero?
-E incredibile, io penso che…
-Senta, prima di pensare: lei ce le ha le palle, accademicamente parlando, per distruggere e sostituire un mito fondante?
-No, penso di no.
-Ecco, allora, mi ridia quel portafoglio e vada a godersi la presentazione del libro.
Mi alzai e camminando mi voltai a guardarlo mentre borbottando riponeva le carte nelle sue grandi tasche.
Inciampai in qualcosa e caddi con la faccia su un mucchietto di merda di bue.
Non ebbi bisogno di capire perché.
(L’illustrazione è stata realizzata da Romina Fiore)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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