Per la prima volta in quattro anni, da quando seguo i corsi di aggiornamento professionale per giornalisti, ho sentito parlare del silenzio come strategia di comunicazione. “Silenzio strategico”. Così lo ha definito Cristina Nadotti, prestigiosa firma di Repubblica e prima ancora de La Nuova Sardegna, intervenendo al convegno sulle Fake news che l’Ordine dei giornalisti ha organizzato ad Alghero. Giornalisti che invocano il silenzio sembra un paradosso, ma rende bene l’idea del momento eccezionalmente preoccupante che attraversiamo, in relazione al rapporto tra politica, populismo e cattiva informazione. Credo dimostri che i professionisti della comunicazione hanno preso definitiva coscienza del loro ruolo decisivo, nella salvezza della democrazia, al punto che in tanti iniziano a mettere in dubbio la vecchia regola secondo cui bisognerebbe sempre scrivere tutto. Cos’è il “silenzio strategico”? Significa tacere, omettere, quando la notizia che si sta per dare in pasto al lettore o ascoltatore e talmente priva di fondamento, talmente mancante di riscontri, da apparire una balla assoluta, magari messa in giro da un politico in cerca di consensi che specula sulla sua visibilità e sul seguito che i media gli garantiscono, tanto smentite e confutazioni arrivano sempre con ritardo e quando ormai in tanti se la sono bevuta. Sintetizzando all’estremo, si può dire che il “silenzio strategico” dovrebbe scattare quando, ad una verifica preliminare alla pubblicazione, ci si renda conto che la notizia sia priva di veridicità. “Ma non dovrebbe già essere così?” obietterete voi, stupiti. Dovrebbe essere così, se non fosse che quando la balla viene pronunciata da un alto rappresentante delle Istituzioni diventa automaticamente notizia, proprio per la visibilità della bocca da cui è uscita. Si dovrebbe far prevalere il criterio della qualità dell’informazione al rango istituzionale della fonte, insomma. Sappiamo bene che è difficilissimo far penetrare questo principio, specie nel clima di feroce competitività tra mezzi di informazione in grave crisi: se un giornale decide di riportare una dichiarazione di un ministro dai contenuti del tutto fantasiosi, difficilmente gli altri se ne priveranno. Anche perché verrebbero prevedibilmente tacciati di censura, di bavaglio e via dicendo, strategia spesso usata da chi contesta la stampa tradizionale.
Sappiamo bene che la rete ha rivoluzionato l’informazione di massa, fornendo un potere incontrollabile a gente senza scrupoli, del tutto svincolata da regole deontologiche e buon senso, che può permettersi di pubblicare qualunque nefandezza senza doversene assumere le responsabilità, anche quando incita all’odio o soffia sul fuoco del pregiudizio. La rete delle fake news non è un fenomeno italiano ma globale. Collegato, ad esempio, anche alla fulminante ascesa politica di Donald Trump.
Che il silenzio strategico possa essere attuato a no, interessante è che l’autogoverno dei giornalisti stia cercando contromisure, anche estreme, per far prevalere la qualità dell’informazione. So bene che qualcuno di voi mi deriderà, obiettando che spesso è proprio la stampa tradizionale a diffondere notizia prove di credibilità. Chi spaccia fake news specula molto sulla scarsa autorevolezza delle testate storiche, sbrigativamente liquidate come strumenti del potere politico o economico, possibilmente da soffocare togliendo loro ogni aiuto pubblico. È vero, l’informazione tradizionale ha molti difetti, editori avidi e autoritari, molti giornalisti dalla dubbia correttezza, molti dei quali spesso fanno carriera a scapito di altri, più bravi, per la loro disponibilità ad accettare compromessi. Ma i giornali non sono altro che una parte di una società che ha esattamente gli stessi difetti. Per tanti giornalisti, editori e direttori di mezza tacca, ce ne sono altrettanti che rendono il nostro Paese un posto migliore con la dedizione e la coscienza che mettono nel loro lavoro. Un Paese senza stampa è un Paese senza speranza.
Alcuni giorni fa sono entrato in un ristorante. Mentre aspettavo all’ingresso che mi trovassero un tavolo, sentivo dalla sala una voce che mi sembrava di conoscere. Il cameriere mi ha condotto e fatto accomodare accanto al tavolo da cui proveniva quella voce. Era un politico che conosco bene. Quando mi ha visto, ha abbassato il tono. Anni fa, a causa di un suo intervento diretto presso l’editore, persi un posto di lavoro che mi ero guadagnato con sangue e sudore. So bene cosa possa accadere nei giornali. Ma non ho mai pensato, in tutti questi anni, che tutta la stampa funzioni così e che certe ingiustizie accadano ovunque. Non mi sono mai augurato che quel giornale chiudesse, semplicemente perché io ne ero stato escluso. No, ogni giornale è un piccolo patrimonio di democrazia, al quale si può chiedere conto di errori e mistificazioni. Alla rete delle fake news invece non si può chiedere proprio nulla. Forse per questo certi silenzi saranno d’ora in poi indispensabili.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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