Ultimamente, in Sardegna, si respira un clima di forte rottura con il passato. Quelli che per tanti anni, per quasi mezzo secolo, sono stati gli intellettuali di riferimento non solo dell’area sardista, ma di una intera visione di Sardegna, sono da qualche tempo sottoposti ad una revisione che tende, addirittura, alla totale rimozione. Tale presa di posizione si spinge oltre la Costante Resistenziale di Lilliu o la Vendetta come Ordinamento Giuridico di Pigliaru, e arriva fino a Lussu e a Bellieni e, talvolta, non risparmia neppure Gramsci o, per tornare più vicino a noi, Michelangelo Pira. Nelle pagine di Sardegnablogger Bolognesi descrive, con la solita verve e la schiettezza che lo contraddistingue, certe visioni di Lilliu come controproducenti, idee che hanno contribuito a condizionare negativamente e ad erigere inutili e dannosi steccati tra sardi. Nei libri del giovane semiologo Franciscu Sedda (confluito nei sovranisti dell’attuale assessore regionale e filologo Paolo Maninchedda), si percepisce forte l’aria di discontinuità con le tradizionali teorie e pratiche sardiste e autonomiste discendenti dai Bellieni e dai Lussu. Negli ambienti vicini a ProGres e ad altre formazioni di ispirazione indipendentista, è manifesto il posizionamento verso opzioni radicali, anch’esse che rompono con il passato. Io stesso, nel mio libro sul disboscamento della Sardegna, ho verificato che gli intellettuali degli anni’60 e ’70 hanno contribuito ad alimentare un’immagine di terra povera per natura, popolata da uomini forgiati da un ambiente aspro, come quello descritto dall’antropologo Cagnetta sul Supramonte. Una sorta di determinismo vittimista, dimentico della naturale vocazione boschiva dell’isola, che finiva per creare un condizionamento nella cultura politica e nell’immaginario collettivo, un complesso fatalistico che richiamava scelte di politica economica improntate su modelli di sviluppo di importazione. Nel dopoguerra si sgomberavano le macerie e si ricostruiva. L’Italia conosceva il suo boom economico senza risolvere la questione meridionale e la questione sarda. Gli intellettuali dell’epoca restavano ancorati a degli schemi che discendevano ancora al marxismo di Gramsci e al liberismo idealistico di Croce. Si sviluppava, dentro quella cornice, in anni di grande fervore culturale e di acceso dibattito, una nuova idea di Sardegna che doveva portare al progresso e allo sviluppo senza rinunciare alla sua identità e alla sua autonomia. Io ho grande rispetto per quel periodo. Con tutte le contraddizioni ereditate oggi, quella classe politica e intellettuale aveva ben altro senso dello Stato e se l’Italia, oggi, resiste a fatica nel novero delle grandi potenze economiche, lo si deve comunque a quella ricostruzione e a quel fervore culturale. Quelle teorie, dunque, come la “costante” e la “vendetta”, negli anni di Mesina e dell’anonima sequestri, risentivano degli echi della caccia grossa di Giulio Biechi, della protervia dello Stato, del razzismo dell’intellighenzia italiana nel giudicare il rinascente banditismo nelle zone interne. Giustificavano, con quello che Placido Cherchi ha definito “etnocentrismo difensivo” (o razzismo, per dirla con Bolognesi), con motivazioni antropologiche, quei comportamenti, e lo facevano con gli strumenti culturali dell’epoca. Ecco che la vendetta veniva assurta allora a ordinamento giuridico, e le intemperanze delle zone interne diventavano “il graffio della resistenza”. La teoria di Pigliaru conteneva, per un epoca in cui ancora Lombroso faceva ombra, degli elementi di novità. Il giurista antropologo spiegava molto bene la discordanza tra due diversi codici naturali del diritto, tra due situazioni, come quella italiana e quella sarda, culturalmente profondamente diverse. Ma era anche una teoria che andava emendata spiegando come una società, per esistere, non si dota solo di un “codice penale”, ma anche di tante altre strutture sociali come ad esempio le feste. Quindi emerse, nella semplificazione degli anni che passano, una visione di “sardi vendicativi”per natura. La Costante Resistenziale oggi è generalmente considerata un pacchetto obsoleto, ridotto a favoletta mitologica per sardi tonti, una roba da cestinare senz’altro. Ed in effetti, se leggiamo l’articolo del Babai Lilliu, ci rendiamo conto che la sua teoria è viziata da numerosi presupposti errati, come quello che vede la resistenza dei sardi raccogliersi attorno alle genti di montagna. Niente di più falso. Cornus, infatti, non era in montagna, e Amsicora non era un pellito. Le decine di migliaia di morti che i romani proclamavano nei loro trionfi, non potevano provenire solo dalle aspre zone montagnose dell’isola. La resistenza, durata oltre un secolo, dei giudicati sardi, ora, grazie anche al lavoro della Fondazione Sardinia, è stata rivalutata nella sua dimensione di lotta anche popolare e sarda. Generazioni di sardi, infatti, all’epoca hanno combattuto facendosi macellare dagli Spagnoli, pur di non lasciare nelle loro mani la propria isola. E che dire degli Arabi che, unico caso nel Mediterraneo, non sono riusciti a conquistare l’isola? Chi li ha respinti gli arabi, i pelliti barbaricini o i contadini delle coste a costo di enormi perdite umane? E i francesi napoleonici che, a La Maddalena e negli stagni quartesi sono stati cacciati a pedate, nonostante l’arrendevolezza e lo scetticismo piemontese, cos’erano, tutti barbaricini? E gli eroici fanti della Brigata Sassari erano sardi, anche barbaricini, e i decorati venivano da ogni parte dell’isola, anche dalle pianure. Chiaro che Lilliu ha preso una grande cantonata, come altre ne ha preso nella sua carriera di archeologo. Basti pensare ai nuraghi fortezza e ai sardi cantonali sempre in lite tra loro, una cosa impossibile, perché una guerra civile dura pochi anni, non secoli, pena la distruzione sociale. Solo che queste cose, Lilliu, le ha dette negli anni ’60. Poi, nel corso degli anni, ha ammesso di essersi parecchie volte sbagliato, come nel caso dei sardi che, secondo lui, non navigavano. Nel corso degli anni, in un certo senso, ha finito per dare ragione a chi oggi gli dà torto. Tuttavia, mi domando, se Lilliu definisce, un po’ a casaccio, “pugilatore” un bronzetto che si ripara con uno scudo la testa, possibile che dopo 50 anni ancora chiamano così le statue di Monti Prama che vagamente assomigliano a quel bronzetto? La colpa è di Lilliu? Possibile che nessuno, in questo mezzo secolo o quasi, si sia preso la briga, invece di passare da un estremo ad un altro, accettando o rifiutando il pacchetto “costante resistenziale” di Lilliu, di dire una cosa molto semplice, fuori dagli stereotipi vergognosi e vittimisti: che si, che è vero che i sardi hanno combattuto, hanno resistito e si sono fatti carne da macello nel corso dei millenni, che una costante resistenziale, in Sardegna, c’è stata, anche se non quella di cui parlava Lilliu? Lilliu parlava, nei fatti, di “costante resistenziale barbaricina”. Toccava a chi è venuto dopo non disperdere quella idea e correggerla, sostanziarla in “sarda”, e rievocare le lotte che gli antenati hanno fatto nella loro storia. Ma rievocare quelle lotte, ci fa sembrare sardegnoli, ci fa sembrare folcloristici. Non si entra nelle Università per la porta principale, rievocando certi massacri e certi sacrifici dei sardi, e non si fa neppure la figura dei superiori, di quelli che guardano avanti e non si lasciano incantare dalle leggende. Si rischia, perciò, di girare tutto in mitopoiesi. Si rischia di farci corrompere dallo scetticismo miope, da una sorta di sobrietà scientifica che vorrebbe essere consapevole e che invece è solo poco informata e colma di pregiudizi. Le teorie si cambiano, si emendano, se c’è una classe intellettuale in grado di farlo. Ma purtroppo, in questi 50 anni, fatte salve le debite eccezioni, come il già citato Cherchi, o Bandinu, e qualche scrittore emerso negli anni ’70 e ‘80, nessuno si è preso la briga di lavorare sopra le teorie, non c’è stata una classe intellettuale di riferimento. Ora, domandarsi le cause di questo buco, di questa silenzio ultradecennale, è forse tempo perso. Dico solo, però, che si assiste ad uno spostamento dell’asse culturale verso la pratica politica, che appare come un mezzo e non un fine, con il paradossale risultato che, oggi, la politica si è impoverita di cultura politica e non riceve neppure grandi apporti dal mondo della cultura. Guardo perciò con preoccupazione all’emergere di riferimenti del passato davvero incongrui, come quel progettista di orrendi casermoni alberghieri sul mare, oggi rivalutato come riferimento del sardismo indipendentista. Lilliu nel ’75 si scagliava contro “i teorici della megalopoli, il mandarinato politico inquinato dal denaro, certi tecnocrati schiavi della propaganda programmatoria” e contro “un’opinione pubblica distratta o estraniata o corrotta da un’informazione monopolistica cui l’area della democrazia e della libertà non ha saputo trovare ancora mezzi di una necessaria controinformazione.” Chi dubita dell’attualità di queste parole? Lilliu ha sempre levato la sua voce contro gli obbrobri, gli sconci edilizi non solo sul mare, ma anche nelle zone interne. Capisco l’esigenza di posizionarsi sul mercato politico di oggi, tutto formulato sulla velocità del messaggio, sullo slogan, con espressioni nette e secche, indipendenza subito. Ma la velocità del messaggio, che troppo soffoca l’elaborazione politica, non dev’essere solo una bandiera che garrisce a discapito del tricolore. C’è anche la difesa delle coste e dell’agricoltura, della lingua e della cultura, non solo la scorciatoia separatista per la risoluzione dei nostri conflitti identitari. Insomma, per me è stato doloroso prendere coscienza che i grandi vecchi della cultura sarda, sulla quale mi ero formato, erano da mettere ormai nel Panteon. Solo che dopo, oserei dire, c’è il vuoto, una latitanza di quasi mezzo secolo almeno di una parte della classe intellettuale sarda, dispersa nei meandri della politica e delle carriere universitarie, e che ha difettato nell’operazione di revisionismo critico sulle fondazioni costitutive della cultura sarda. Oggi mi pare di cogliere qualche segnale positivo. Mi sembra di scorgere segnali di un risveglio di rielaborazione critica e di una nuova visione di Sardegna, al netto delle scorciatoie e delle strumentalizzazioni, a volte davvero bizzarre e modaiole, sul carro del sardismo. Anche la rottura con il passato può essere un po’ traumatica, e le cose che scrive Bolognesi possono apparire ingenerose. Ma la sostanza non cambia: l’esigenza di voltare pagina resta comunque necessaria. E’ necessaria l’esigenza di rifondare le basi della cultura sarda, ma per farlo occorre, innanzitutto, libertà di pensiero. Noi faremo la nostra parte.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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