Ascoltavo i rumori dell’autolavaggio quando il getto dell’acqua, incontrando il metallo, ha emesso un sibilo vagamente familiare. E’ stato allora che qualcosa nel mio cervello ha azionato il rewind e il nastro del tempo si è riavvolto, fermandosi nel punto in cui il ricordo incontra il vissuto
C’è una sala di un appartamento al secondo piano di una modesta palazzina e un flauto che suona. Non è una melodia classica, è qualcosa di diverso, quasi un’improvvisazione. Solo un flauto che corre su una base ritmica che non c’è. Te la devi immaginare, quella base, perché non c’è.
Sono gli Anni Settanta e io incontro la mia prima musica infilando piccoli dischi neri in un mangiadischi giallo. La mela sull’etichetta di Hey Jude con Revolution sul lato b, l’angelo blu dell’Equipe 84, la faccia da bravo ragazzo di Adamo, il sabato nel parco dei Chicago, persino la sigla strumentale di “Tutto il calcio minuto per minuto” che, forse, sono uno dei pochi a conoscere fino all’ultima nota (insieme al lato b, ovvio). C’erano anche dischi più grandi, come il long playing di Charlie Parker che mi limitavo a osservare con un certo timore reverenziale. Le copertine del jazz erano un avvertimento per me. Era come se dicessero “non c’entriamo nulla con quella roba”.
In quella sala il flauto scatenava la sua forza. Volava sul nulla. Sconcertato e affascinato ascoltavo uno strumento che immaginavo diverso. Il flauto, per me, era la colonna sonora della fiaba. Stavolta, usciva dal suo binario e stuzzicava altri sensi. Incalzante e travolgente, soprendente nel momento in cui il flautista emetteva un suono con la voce, nel mezzo dell’assolo, spezzandolo per un secondo prima di riprendere la sua corsa frenetica. La magia non si ripetè a lungo. Tre, forse quattro volte. Tanto bastò per registrarla nella memoria.
Anni dopo, cominciai ad avventurarmi da solo nei meravigliosi sentieri della musica. Per il compleanno mi feci regalare alcuni dischi. La sorpresa giunse ascoltando “Aqualung” dei Jethro Tull. Una delle canzoni dell’album mi fece sobbalzare. Non l’avevo mai sentita, eppure la conoscevo. L’assolo di Ian Anderson, nel mezzo del brano, era ciò che avevo ascoltato da bambino, era la musica che proveniva dalla sala. La ascoltai e la riascoltai, ricucendo gli strappi del tempo. “Locomotive breath” era già mia senza che l’avessi mai ascoltata prima.
Fu così che incontrai il vecchio Charlie, il perdente che non ha più niente da giocare al tavolo della vita. Devastato dalle sconfitte, si trascinava nel corridoio di un treno senza freni lanciato verso il nulla, lo sguardo folle rivolto ai tradimenti e agli addii, a quel Dio che in fondo lo aveva spinto a manomettere i freni. Quel Dio vincente che tiene tutti per le palle usando Gedeone e la sua fede incrollabile. Quel treno senza freni non si fermerà, non c’è modo per farlo rallentare, la fine arriva scandita dal rumore dei pistoni e dal vapore che brucia, in un ritmo pesante e incalzante. La fine arriva scandita dal respiro pesante di una locomotiva “lanciata a bomba contro l’ingiustizia”, canterà Guccini un anno dopo. Ma questa è un’altra storia.
Grazie a mio padre per avermi regalato quell’assolo. Devo a lui la meraviglia di un attimo che non ho mai dimenticato.
https://www.youtube.com/watch?v=yJkmHQ2q–I
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