Avevo pensato di scrivere un pezzo in cui immaginavo come si potesse attuare il populismo dentro la piccola realtà sociale di una classe scolastica. Doveva andare più o meno così….
“Il professore posò la sua agenda sulla cattedra, augurò il buongiorno agli alunni ma nessuno di questi sembrò accorgersi della sua presenza. Stavano tutti col capo chino sul rispettivo smartphone, senza comunicare gli uni con gli altri. E nessuno rispose, al suo buongiorno. Nessuno rispose tranne Claudia, l’unica alunna senza cellulare in pugno e l’unica col libro di storia già aperto sul banco. Il professore iniziò a spiegare il Trattato di Versailles e i quattordici punti di Wilson, la vittoria mutilata e l’impresa di Fiume. Ma tutti continuavano a non seguirlo, tranne Claudia. La ragazza si guardò attorno, infastidita. “Scusi, professore, lei sta spiegando la lezione dalle schede di Wikipedia e dalle mappe concettuali, ma io non trovo corrispondenza con i contenuti del testo. Non sarebbe meglio leggere anche qualche capitolo dal libro?” La classe parve destarsi improvvisamente e tutti posarono lo smartphone sul banco, come trafitti da uno spiedo arroventato. “Il libro?” esclamò Alì, all’ultimo banco, la cui voce si era sentita in classe per l’ultima volta sei mesi prima. “Ma se nessuno di noi ce l’ha né l’ha mai portato!”. “Il fatto che voi non l’abbiate non significa che non lo si debba usare”. L’osservazione non uscì dalla bocca del professore, ma da quella di Claudia. La quale venne subissata di insulti di ogni genere e bersagliata dal lancio di oggetti vari: trousse di trucchi, lattine di birra, cellulari finti usati per ingannare i docenti quando questi chiedevano agli alunni di posare i telefoni nell’apposito contenitore. Fortunatamente non volarono penne e nessuno si fece male. Nessuno ne possedeva una e secondo Alberto, memoria storica della classe, nessuno ne aveva mai posseduta una negli ultimi tre anni.
Il professore prese la parola per mettere pace, usando un tono che si sforzò di far apparire benevolo. “Vedi, Claudia, i libri sono strumenti antiquati, che nessuno usa più. La scuola dev’essere al passo con i tempi, deve aggiornarsi. Non è meglio se studiamo da internet, anziché annoiarci sui pesanti capitoli di quel vecchio arnese che chiamano libro?”. E indicò la mappa concettuale proiettata sulla Lim: in un’unica schermata, in dieci punti, si condensava il tratto di storia tra la campagna di Libia, la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo. Partì un applauso scrosciante dalla classe e il professore, senza darlo a vedere, se ne compiacque.
“E quindi muta, stronza!”, sentenziò Alì, alla sua seconda dichiarazione nell’ultimo semestre. “Stai zitto tu, negro!”, gli rispose Mustapha, che era negro pure lui ma aveva sempre avuto un debole per Claudia e la difendeva in ogni occasione. “E lavati, negro!”, rincarò Mustapha, il cui invito venne sottolineato da un brusio di approvazione. Scoppiò un nuovo parapiglia, come in area di rigore al novantesimo quando alla squadra in svantaggio viene concesso un calcio d’angolo. Alì fece per mettere le mani addosso all’avversario ma colpì senza accorgersene Gianluca, il quale fino a quel momento si era totalmente disinteressato agli eventi in corso. Per la prima volta nell’ultimo semestre Gianluca si levò gli occhiali da sole. Li teneva sempre sul naso e quando qualche nuovo docente lo invitava a toglierseli, lui estraeva dal taschino il foglio del medico di fiducia certificante una particolare forma di congiuntivite che rendeva indispensabile schermare gli occhi dello studente con i Rayban ultimo modello. Gianluca si denudò dunque delle lenti e con un cazzotto alla punta del mento stese Alì, ma Alì rimbalzò come una palla da tennis e gli si tuffò addosso a corpo morto. Vennero districati dopo alcuni minuti di lotta greco-romana. Sull’esito finale del match, in quei minuti, in classe si scommise pesantemente.
Venne ripristinata la calma e, ancora una volta, il professore dovette intervenire per mettere ordine. A sollecitarlo fu Claudia, che chiedeva provvedimenti contro parolacce, espressioni razziste e sganassoni susseguitisi negli ultimi minuti. “Vedi, Claudia, le parolacce fanno parte del nostro linguaggio corrente. Perché dovremmo fingere di non conoscerle? Solo perché siamo in classe? Non sarebbe da ipocriti? Dì la verità, anche a te ne scappa qualcuna, ogni tanto! E poi, scusa un momento, Alì ti ha dato della stronza e tu lo difendi?” Stavolta la classe non si limitò agli applausi, ma si levò in piedi per omaggiare il professore. “Ma le sembra normale che ad Alì abbiano dato del negro e gli abbiano detto che puzza?”, replicò Claudia, la cui indignazione volgeva all’ammutinamento.
Il professore sorrise lievemente e chiese ad Alì e Claudia di avvicinarsi alla cattedra. Li fece disporre uno accanto all’altro, in piedi, faccia alla classe. Claudia aveva una carnagione lattea. “Non so cosa vediate voi – attaccò il professore – ma io vedo una ragazza bianca o un ragazzo scuro. Potrà non piacere che si sottolinei questa differenza, ma è un dato di fatto, una constatazione oggettiva”. Ancora una volta la classe era d’accordo. “Ma gli hanno dato del negro, l’intento era chiaramente offensivo!”, protestò Claudia. Il professore sbuffò, esasperato. “Benedetta ragazza, l’uso della parola “negro” era assolutamente lecito e normale, pacificamente ammesso, fino a pochi decenni fa. Adesso con questa smania del politicamente corretto vogliono farci sentire in colpa per qualunque cosa si dica, anche la più innocente. Ormai non si può manco più parlare di razza, pare sia discriminatorio usare quel termine! Ma se di razza parla anche l’articolo 3 della Costituzione! Quanto alla puzza, è notorio che i neri hanno una secrezione ghiandolare più intensa ed emettono un odore molto forte, anche sgradevole. Senza offesa, carissimo Alì, ma anche questo è un dato di fatto ed è giusto che tu ne prenda atto”. “Ma anche il cazzotto di Gianluca le sembra normale?” “Beh, Gianluca è stato colpito e si è difeso. Credo che difendersi sia un diritto, non gliene farei una colpa”.
I due ragazzi vennero rispediti al banco e la lezione riprese. Tutti tornarono ai loro smartphone, tranne Claudia. Che, essendo una rompicoglioni, ebbe ancora da ridire. “Scusi, professore, ma durante la lezione possiamo usarlo liberamente il telefono? Ci hanno sempre detto che non si poteva, secondo il regolamento, ma se lo usano tutti perché non dovrei farlo io?”.
Fu in quel momento che in classe fece irruzione la dirigente scolastica, salutando con un sommesso “Buongiorno”. Venne ignorata pure lei e tutti rimasero con gli occhi incollati agli schermi. Allora la dirigente alzò il tono, indispettita, tutti posarono i telefoni e si levarono in piedi. Tranne Monica e Bogdan, che avevano le orecchie fasciate da vistose cuffie bianche da deejay e non potevano sentire né capire quel che accadeva nel mondo circostante. La dirigente protestò vibratamente per l’uso del telefono in classe, rinfacciandolo direttamente al professore. Ma il professore sapeva come difendersi. Afferrò il suo telefonino, smanettò un po’ e poi ne mostrò il display al superiore. Era un intervento di un famoso sociologo, docente universitario di fama, che spiegava l’inutilità di vietare l’uso dei telefoni in classe, misura ritenuta reazionaria e miope, utile solo ad accrescere la distanza tra istruzione pubblica e società civile. Tacquero per qualche istante, guardandosi l’un l’altra. Poi il professore spiegò: “I ragazzi, cara dirigente, usano i telefonini perché ho chiesto loro di seguire da una qualificata fonte internet i contenuti della lezioni di oggi. Non trova sia un modo intelligente di impiegare la tecnologia?”. La donna era in difficoltà: “Beh, effettivamente…ma i due alunni con le cuffie?”. “Loro stanno ascoltando un’audiolezione. Sullo stesso argomento”. La dirigente roteò lo sguardo in giro per l’aula, poi lo posò su Claudia. Infine le chiese: “Tu sei l’unica che non ha né il telefonino davanti agli occhi, né cuffie alle orecchie. Debbo dedurre che la lezione non ti interessi. Esigo una spiegazione immediata!”. Il professore si strinse nelle spalle, allargò,le braccia e ammise che il caso di Claudia gli era sfuggito di mano”.
Il racconto terminava così. Poi però avevo deciso di non pubblicarlo, perché rileggendolo mi era parso troppo fantasioso. Infine ci ho ripensato, dopo aver sentito ministro dell’Istruzione e dell’Interno e qualche assessore locale invitare i docenti a smetterla di assegnare questi dannati compiti a casa.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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