di Fiorenzo Caterini.
Persino Voyager, noto programma per amanti del mistero, parlando di storia antica della Sardegna, ha sollevato un polverone nell’isola. E’ proprio un nervo scoperto, questo della storia nuragica della Sardegna, se anche un programma dichiaratamente “fantasy”, che si occupa, per intenderci, di Arca di Noe, Sacro Graal, connessioni tra antiche civiltà e gli alieni, ha scatenato un dibattito e le proteste provenienti da una parte sorprendentemente consistente dell’intellighenzia sarda, accademici, politici, scrittori e attivisti. C’è chi prende molto sul serio “Kazzenger”, addirittura chi invoca lettere di protesta alla Rai, chi evidenzia danni devastanti alla cultura sarda, e così via. In un recente articolo, I giganti nel supermercato e la vergogna dei sardi avevo messo in evidenza proprio questa caratteristica tutta sarda, che ci distingue nel mondo. Solo in Sardegna, infatti, l’intellighenzia si preoccupa molto delle vulgate popolari, del folklore legato all’archeologia, delle fantasie storiche, arrivando a delle vere e proprie crociate. Io non ho guardato Voyager. Non per snobbismo, ma perché, molto semplicemente, non sono un amante del genere. Ma a parte le lotte di potere che possono nascere attorno all’archeologia sarda, credo che questo fenomeno tutto sardo abbia anche delle motivazione profonde, da rinvenire nel cattivo rapporto che i sardi hanno con la loro storia, e che in parte è indotto. Per prima cosa vorrei rilevare un paradosso. La cultura italiana soffre di una grave handicap, derivante dall’idealismo crociano dei primi decenni del ‘900. La cultura italiana, impostata sulle teorie di Croce e Gentile, prevedeva una distinzione netta tra la cultura “colta”, alta, e quella popolare. Tra le due culture ci doveva essere una separazione di casta, e non vi dovevano essere processi di contaminazione e di osmosi, guai. Ora quanti danni abbia fatto questa distinzione così settaria alla cultura italiana, che per certi versi perdura tuttora, è facilmente dimostrabile. Danni non solo culturali, ma anche economici. Il vuoto di cultura popolare creato da questa visione, infatti, ha favorito l’invasione di prodotti culturali commerciali d’importazione soprattutto anglosassone i quali, grazie alla loro semplicità e popolarità, sono stati facilmente imposti dal mercato. Basti pensare alla musica. Se il paese dell’arte e della cultura, rende in termini economici in proporzione ai suoi beni meno che altrove, non è solo per la tipica trascuratezza materiale italica, ma anche per quella sciagurata impostazione che ancora domina la visione accademica del paese. Ed è curioso, persino paradossale, verificare come proprio una certa visione della cultura sarda come incontaminata dalla vulgate popolari, in realtà non sia altro che l’assorbimento dell’impostazione crociana della cultura italiana. Nel paradosso, l’impostazione crociana viene pure condita di retorica anti-italiana! Come a dire, si beve l’acqua sporca rifiutando sdegnosamente il bambino. Ma il cattivo rapporto con la nostra storia è il frutto di dinamiche complesse, e di un conflitto, perenne e sempre in corso, con la nazionalizzazione della cultura sarda. Il conflitto tra cultura sarda e la Nazione, è tipico dei rapporti di forza tra grandi nazioni e regioni culturalmente eccentriche. Per sfuggire alla strumentale retorica anti-italiana che, quella si, sta facendo dei danni enormi al processo di emancipazione del popolo sardo, aggiungo che sono processi che con diversi accenti, (anche ben più violenti dei nostri, basti pensare all’Irlanda del Nord), sono tipici in tutto il mondo e conosciuti da chi studia le questioni da una prospettiva antropologica storica ed economica. Gli elementi fondamentali su cui si basa la nazionalizzazione di una regione sono la lingua e la storia. L’antropologo Eric Wolf ha scritto un testo fondamentale sull’argomento, raccontando come i cosiddetti “popoli senza storia” siano in realtà il prodotto di una visione eurocentrica. Il racconto della nazionalizzazione delle masse poi è stato descritto molto significativamente da George Mosse, e le origini etniche delle nazioni con i processi di omologazione da Anthony Smith, evidenziando delle dinamiche molto potenti di unificazione culturale e identitaria che la nazione forte mette in campo contro la regione debole. Sulla storia di una regione si gioca, dunque, molto del processo di unificazione nazionale. Lo Stato Italiano si è ritrovato tra i piedi, nel suo processo di unificazione nazionale, questa scoglio per lei difficilissimo da superare della storia nuragica. Una storia che, in realtà, solo ad essere ciechi può essere relegata ad un ruolo marginale della storiografia occidentale. Come dice Emmanuel Wallerstein, la storiografia che viene imposta nel mondo è in realtà il processo di unificazione di solo cinque grandi storie nazionali. Ha ragione. Noi studiamo, per convenzione, solo la storia inglese, francese, americana, tedesca e italiana. Poi si accenna a qualche rivoluzione qua e là nel pianeta, ma sostanzialmente le storie che studiamo queste sono. Spazi per altre storie non ve ne sono. Figurarsi per la storia nuragica, anche perché la storiografia europea ha preso la strada del filone unico che dall’oriente, dalla Grecia antica, si diffonde per l’Europa passando per l’Italia. E da questo filone storiografico ora sarebbe un macello discostarsi, ci sarebbe da riscrivere tutti i libri di storia e l’Italia dovrebbe completamente ricreare l’elemento fondamentale della sua nazionalizzazione. Volete sapere qual è questo elemento? Ebbene ogni popolo, dalla tribù dell’Africa sub-sahariana alla democrazia occidentale più ricca, ha necessità, per sentirsi tale, di un elemento fondativo. Si chiamano miti di fondazione: i cavalieri della tavola rotonda, le durlindane dei franchi, Romolo e Remo, l’Oro del Reno, Achille con Ulisse e l’epica omerica, e così via fino ai miti più recenti creati dalle storiografie nazionali. Spesso partono da fatti storici reali e vengono romanzati, come nel caso di Giovanna d’Arco, altrimenti sono inventati di sana pianta e conditi di narrazioni magiche e misteriose. Persino quel cialtroni dei leghisti, strumentalmente, si sono inventati la pagliacciata delle sorgenti del Po, e non è un caso. Ora, senza questi miti, non esiste popolo per definizione. Il popolo, antropologicamente, ha necessità di riferirsi ad un mito comune che crei un legame e una memoria condivisa. Il processo di creazione della mitologia è lunghissimo e non è facile ricostruirne dei nuovi. La cultura sarda è da sempre alla disperata ricerca di far emergere un proprio mito fondativo per potersi sentire popolo. Molta della letteratura sarda, si pensi a “Passavamo sulla terra leggeri”, risponde a questa esigenza, a queste sirene che dal profondo della nostra stirpe invocano una memoria condivisa. Allo stesso modo a questa esigenza corrisponde il mito di Eleonora d’Arborea, o dei Shardana. La scienza dovrebbe distinguere, ovviamente, gli aspetti storici di questi fatti reali da quelli popolari, comprendendo però che questi ultimi sono il risultato di una esigenza umana molto profonda che non è utile, giusto, democratico, e neppure possibile contrastare. La scienza si occupi di fare bene il suo lavoro senza interferire in cose, come dire, che non la riguardano. Invocare stucchevolmente, poi, ad ogni discussione sul tema, i Falsi d’Arborea, francamente non è molto utile. Ecco perché in Sardegna, unico posto al mondo, la nostra storia antica scatena queste guerre così feroci, e i miti che potrebbero sorgerci attorno vengono così sorprendentemente presi sul serio. Persino l’innocuo Giacobbo ci fa paura, è un problema. Perché stiamo tutti dentro questo processo conflittuale e, per la verità, siamo un poco confusi. E nella confusione, spesso, fa più danni il fuoco amico che quello nemico. Abbiamo interiorizzato, senza volerlo, il divieto di divulgare e rendere popolare la storia antica, il mito fondativo. Per finire, vorrei dire che mi sono giunte alcune segnalazioni di persone che lavorano nei siti archeologici e che, grazie a kazzenger, hanno visto improvvisamente aumentare gli ingressi. Certo, erano, come dire, gente del “popolino”. E tuttavia io tutto questo danno, se gente del “popolino” si avvicina all’archeologia sarda, non ce lo vedo proprio. E a maggior ragione non ci vedo tutto questo danno se dei precari che campano di cultura possono avere qualche chance in più di farcela. Temo che tutto questo danno alla cultura sarda sia visto da chi, in fondo, ha lo stipendio fisso e la pancia piena.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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