Ieri ho visto un vecchio piangere. Quel vecchio si chiama Giorgio Napolitano. Le lacrime hanno sciolto la mia crosta di diffidenza: siamo educati all’odio e in un politico importante, spesso, neppure più riesco ad intravvedere l’uomo. Al vecchio si strozzava la voce in gola, mentre parlava con l’astronauta.
In quel vecchio io non ho visto l’uomo che prese la parte dei carri armati inviati da Mosca per schiacciare la rivolta ungherese, cinquantotto anni fa. Né ho visto il primo comunista italiano in viaggio negli Usa o il pignolo estensore di note di rettifica che, con arroganza, cercava di imporre ai giornali quando qualche aggettivo non gli aggradava (io non li sopporto gli scrittori seriali di precisazioni).
Non ho visto l’uomo potente coperto di onori e gloria, molto più di quanto qualunque altro uomo possa sperare di avere in vita sua, non ho goduto di alcun piacere vedendo un vecchio piangere. Non ho visto il lanciatore di inutili moniti resi in un linguaggio fuori dal mondo.
Per me quell’uomo era solo un vecchio. Cercava di essere Istituzione massima, di interpretare il ruolo, ma più di ogni altra cosa vedeva ad un palmo dal naso la fine dei suoi giorni. Forse la vita gli scorreva tutta davanti e gli presentava, crudele, il conto di ogni suo irrimediabile errore. Non c’è più tempo, non c’è più modo.
E piangeva, come un vecchio qualunque. Come un uomo qualunque. So che mi odierete, ma in quel momento io ho provato affetto per lui.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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