Del “Marinaio” di Fernando Pessoa si danno solitamente due letture. Quella simbolista e fatalista dovuta all’influsso del nobel belga Maurice Maeterlinck e quella esoterica. Ma Antonio Tabucchi, il più noto traduttore italiano e critico del poeta portoghese, analizzando finemente e lasciando aperta la questione interpretativa, risale persino al fatto biografico della passione di Pessoa per la sciarada e l’enigmistica. Si veda da simili premesse come ci sia da tremare a portare sul palcoscenico questo che Pessoa stesso definisce “Dramma statico in un quadro”: a drammatizzarlo realmente, cioè tradurlo e renderlo gradevole al pubblico senza tradirne il complesso spirito. Uno spirito reso nel testo da una lingua non parlata e non parlabile, dunque non recitabile se non correndo il rischio di artificiose e noiose trasposizioni dell’unica opera teatrale di Pessoa, fatta sostanzialmente non per essere detta ma per essere letta. Un’operazione che registi davvero bravi come Lelio Lecis possono portare a termine rispettandone il senso e insieme traducendolo in un linguaggio teatrale che non soltanto non stravolga ma addirittura esalti ogni significato palese e quelli misteriosi dell’affascinante testo. Lecis – in questa produzione di Akroama presentata con festoso successo all’Astra di Sassari nell’ambito dell’ “Autunno a Teatro” organizzato dalla Compagnia Teatro Sassari – ha afferrato le categorie del simbolismo fatalista, dell’esoterismo e persino della sciarada e le ha porte al pubblico usando lo strumento dell’estetica, che se saputo usare tutto rende comprensibile e tutto rende bello. Un’estetica teatrale, scenica e scenografica, fatta di movimenti e di recitazione, di luci e di macchine di scena, di suoni e di colori, di parole e di gesti dove ciascuno di questi elementi ha, nello straordinario mélange costruito da Lecis, una pari dignità.Tre donne vegliano su una bara che nel testo ne contiene una quarta ma qui non si sa chi o cosa si vegli, candele, una finestra su monti e mari. La scena descritta da Pessoa in questo “Marinaio” di Lecis viene recitata da una delle vegliatrici, non soltanto riprodotta, evidenziando la scelta di unire visioni e parole, contribuendo nella versione teatrale a rendere ancora più evidente questa simbiosi tra dimensioni onirica e reale, rese in questa regia e drammaturgia talmente indissolubili da creare una nuova dimensione che è quella del “sogno vero”. Ma forse neppure tanto “nuova”, ché potrebbe in realtà essere proprio quella in cui – tra follia, ubriachezza, misticismo e poesia – navigava il “marinaio” Pessoa.Le tre vegliatrici Tiziana Martucci, Julia Pirchl e Valentina Picciau, svolgono ottimamente il loro ruolo di elementi vivi della scena, fondendosi – con una accurata recitazione dove danza e voce si rimbalzano in difficili e riusciti contrappunti – con una costruzione drammaturgica straordinariamente armonica. Il mistero del mondo sognato dal marinaio naufrago che diventa vero, dell’identità imperscrutabile delle tre fanciulle, del loro timore per il passato e per il futuro, e insieme la nostalgia di entrambi, emergono in modo comprensibile e gradevole da ogni elemento di regia, persino dalle luci plastiche, che alle volte, con l’aiuto di una nebbia chimica, scavalcano la quarta parete portando il pubblico dentro la scena con una naturalezza e insieme un’emozione forte, come avviene nell’improvviso e coinvolgente finale.Il sogno è condito di salmastro marino e sembra di sentirne il sapore negli effetti più semplici, come lo stridere dei gabbiani, e in quelli più complessi, come la macchina circolare rotante e luminosa che trasforma le vegliatrici in un faro, forse il vero contenitore del dramma, quello che Pessoa definisce un castello.Tutto, insomma, porta al rapimento ambiguo di questo sogno il cui racconto viene interrotto perché “un sogno non finisce”. Le tre attrici restituiscono con grazia e bravura questa plurivocità dei loro personaggi che nella chiarezza delle mille sfaccettature caratteriali, persino nelle forti e mai gratuite scene di sensualità, non è equivoca falsità e neppure irresolutezza, ma una schietta manifestazione di esseri che parlano e pensano ma che forse non sono, che scompaiono quando, nella danza che prelude al finale e che sembra richiamare quella dei dervisci rotanti, raggiungono un’estasi mistica che li fa dissolvere in un esoterico imbuto di luce che avvolge il pubblico insieme al palcoscenico.Insomma, una riuscita trasposizione che testimonia ancora una volta la qualità del teatro sardo alla quale hanno fortemente contribuito i costumi di Marco Nateri, le musiche di Bernardo Sassetti e Armand Amar e la scenografia di Valentina Enna.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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