C’è una cosa enorme, da una parte. Un massacro di un segmento dell’umano genere per cui è stato necessario coniare nuove parole, termini prima inutili in assenza di fatti, di concretezza dell’orrore. Un orrore che solo i lettori dell’Antico Testamento possono comprendere nelle possibilità del suo volume, della sua violenza, ma non delle sue radici.
E c’è una cosa che sembra piccola, dall’altra, ma piccola non è affatto. Una donna – che di nome fa Hannah e di cognome fa Arendt – che appartiene a quel segmento offeso e violentato con violenza estrema, metodica, organizzata da croce uncinata, che cerca di capirle quelle radici, comprenderle e svelarle.
E in mezzo, tra l’orrore che sei milioni di morti hanno provocato nei sopravvissuti e la donna che cerca di capire le radici di quell’orrore, c’è ciò che rimane di un uomo che la croce uncinata l’aveva sul petto, Eichmann, nazista fuggito dalle responsabilità ma rapito e riportato alla declinazione di giustizia delle sue colpe dal popolo di Israele.
E nella comprensione dell’abisso di ciò che è accaduto, di ciò che forse solo uno come Hieronymus Bosch ha potuto riportare ad umana vista, la Hannah Arendt, il suo pensiero, il suo cercare le radici di quel male, incontra delle verità scomode, molto scomode per chi giustizia pretende, e in fretta senza troppo capire, verso chi è – nel momento – l’umana sintesi delle colpe della Shoah.
Nella ricerca delle radici del male l’incontro è con l’assenza di radici. Perché il male, a volte, nasce con profonde radici ma si diffonde molto rapidamente, e con successo, laddove le radici umane, ciò che differenzia l’umano genere dalle altre specie animali – il pensare – è assente.
Non che Eichmann non “pensasse” affatto. Ma, secondo la donna che cercava di capire, “pensava senza sentire”. Perché usare la razionalità è cosa complessa e non è solo faccenda di raggiungere uno scopo avendo ben presente i mezzi a disposizione, ma anche muoversi in ragione di valori. E per Eichmann, come per tanti nazisti, piccole, minuscole ma significativi ingranaggi di una organizzazione gerarchica, “sentire” non era ammissibile, ma solo obbedire.
Perché “sentire” vuol dire avere a che fare con se stessi, con il proprio intimo universo etico. E in una dittatura ciò pretende coraggio, che è moneta scarsa, scarsissima, e risorsa pericolosa da usare, per la propria umana sopravvivenza. Di sé e dei propri cari. E’ più facile obbedire, dunque, perché a quel punto c’è qualcuno che pensa per te, ha già deciso, per te, quali sono i valori da seguire, obbedendo.
In questo strabismo, tra razionalità che segue lo scopo e razionalità che si muove in ragione dei valori, la Hannah Arendt ha mostrato quanto sia facile, purtroppo, la veloce, imponente e diffusa possibilità che il male seduca un popolo, lo faccia suo e riduca tutti, troppi, a obbedienza che – alla resa dei conti giudiziari – espunge la personale responsabilità. Ed è un meccanismo che prende tutti, anche quelli che sembrano e sono normali, banali, come Eichmann.
Troppa, troppa verità scomoda per il recente dolore di quel popolo e dell’Occidente intero? Troppa verità scomoda, riconosciuta più in là nel suo colore reale, quando il linciaggio pubblico e la produzione di stigma avevano già fatto il loro mestiere. Troppa? No, le verità, pur scomode, il “troppo” dovrebbero buttarlo fuori a calci nel sedere. Ma ci vuole coraggio, “gerarchia di coraggio” come disse Eichmann…
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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