Ho conosciuto Stefano Cucca, meglio noto come Rumundu, qualche anno fa nell’ambiente delle gare del triathlon. Non saprei dire se il suo approccio riflessivo a quell’ambiente di agonisti spinti fosse già il preludio, la preparazione atletica e psichica, a ben altri progetti di vita. Tempo dopo venni a sapere infatti della sua sorprendente scelta di farsi il giro del mondo in bicicletta in perfetta autosufficienza. Nulla di strano si direbbe, per uno sportivo dotato di grande lena e spirito di avventura, oltreché di solide basi culturali. Il vero coraggio fu nel rinunciare, almeno momentaneamente, alla sua carriera di promettente manager e di abbandonare il posto di lavoro. In una società che, data la penuria di occupazione, considera il posto di lavoro con un alone di sacralità, la sua scelta di abbandonare tutto per farsi un giro del mondo in bicicletta apparve, ai più, come una forma di leggerezza e di incoscienza. Sotto questo profilo, la partenza ufficiale del lungo viaggio, avvenuto presso la leggendaria fontana della Billelera di Sorso, era tutto un programma. Ma, alla fine, ha avuto ragione Rumundu. L’esperienza e la fama maturata nel giro del mondo ha reso il giusto merito alla filosofia di vita universalista e d’avanguardia del manager, atleta, filosofo e filantropo sardo, tanto che lo stesso, oggi, è conteso, a suon di contratti vantaggiosi, da mezzo mondo per progetti di vario genere e di varia natura. Tuttavia, il nostro, fedele al suo spirito, lo ritroviamo ancora nell’isola, considerata come il luogo ideale di fermentazione dell’enorme esperienza maturata nella sua avventura. Oggi Stefano, tre anni dopo essersi sciroppato decine di migliaia di chilometri attraversando decine di paesi di tutti i continenti, ritorna alla ribalta della cronaca per uno degli esiti di quella avventura. Infatti Stefano i giorni scorsi si è sposato con una ragazza sudafricana conosciuta durante il viaggio. Si è parlato del suo matrimonio anche per alcuni aspetti tradizionali della vicenda, come ad esempio il fatto che, come corredo dello sposalizio, Stefano abbia dovuto fornire alla famiglia della sposa 20 vacche come contropartita. Stefano mi perdonerà se prendo a pretesto il suo fatto personale per osservare come la nostra percezione deformata dalla modernità intenda questo rito molto comune, ancora, nonostante la globalizzazione, in varie zone dell’Africa. Prendo a pretesto questa tradizione perché pone in evidenza quanto il nostro mondo occidentale sia malato di etnocentrismo e non sia in grado di comprendere più certi valori simbolici. Non solo: il nostro mondo tende a proiettare la nostra aridità, la nostra semplificazione, il nostro formalismo, la nostra materialità attribuendola ad altri popoli. Infatti ho sempre sentito portare ad esempio, non solo a livello di vulgata popolare, ma anche da opinionisti di varia autorevolezza, lo scambio tra la sposa e le vacche come una forma di degrado morale e di denigrazione della figura femminile. Il mercato delle vacche era l’esemplificazione più probante della nostra superiorità etica e morale, la dimostrazione di come fosse giustificata la nostra esportazione di democrazia e degli altri istituti sociali in quelle terre, con annesso sfruttamento sottinteso delle risorse, e di come fosse altrettanto giusto sollevare barriere culturali e politiche verso l’esterno. Niente di più falso. Mi rendo conto che, per la nostra mente deformata dal mercato, dove il paradigma assoluto del valore è dato dalla quantità monetaria presente in quel dato luogo, non sia facile comprendere l’articolato apparato simbolico che risiede in quella tradizione, che soltanto dopo decenni gli antropologi occidentali, malati anch’essi di etnocentrismo strumentale, hanno messo il luce. Nel mondo tradizionale africano, infatti, il gregge della vacche è un potente apparato simbolico. Esso è portatore del dono sacro della fertilità. La vacca, nella spiritualità dei popoli che non hanno del tutto perso un rapporto armonico con la natura, è la portatrice di fertilità per eccellenza. Pertanto il dono delle vacche ha un significato beneaugurante per il matrimonio. Significa che tra le due famiglie, quella dello sposo e dalla sposa, si configura una scambio di uguale portata, simmetrico, dove la prosperità viene scambiata vicendevolmente e dove l’arrivo dei figli viene considerato come un auspicio benedetto. La vacca pertanto è il garante sacro di una continuità e di un rapporto che persiste tra gli esseri umani e le forze della natura che si generano in perpetuo. Ma non è solo questo. Nelle società tradizionali l’uomo deve dimostrare di meritarsi il ruolo di capofamiglia. Deve dimostrare di avere la forza e la serietà per mantenere mogli, figli e i vecchi non più adatti al lavoro. Per questo lo scambio delle vacche è una dimostrazione di indipendenza e maturità. Significa che il giovane mostra alla società di essere stato abile a mettere su una mandria, e quindi di saper badare a se stesso e ad altri esseri viventi, e di garantire, ai familiari della sposa, che essa non patirà la fame e la povertà. Un segno di indipendenza e di maturità insomma, che le antiche società aventi una economia di sussistenza pretendevano dallo spasimante a garanzia del benessere della propria stirpe. Ora, questi brevi cenni antropologici su una tradizione così complessa meriterebbero ben altra trattazione, ma, in fin dei conti, quello che conta, a tutte le latitudini, è che ci sia l’amore. E sono convinto che è proprio il sentimento più profondo e puro dell’amore, inteso come compassione, come amorevolezza, come sensibilità, come comprensione, come immedesimazione nell’altro che sia uguale, simile o il più diverso possibile da noi, che manca in questo mondo. E, alla fine, credo che il messaggio universale e poetico dell’impresa di Rumundu stia tutta qui.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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