L’agente di polizia penitenziaria Gianfranco Boi partì dalla scuola di Monastir il 19 marzo 1986 e, la mattina dopo, era pronto per il suo primo turno di servizio al carcere di massima sicurezza di Voghera. Qualche minuto dopo le otto un altro collega sardo arrivato da Monastir, Antonio Simula, gli porse una tazza del caffè che con tutte la cautele aveva appena preparato: Boi la ficcò nel contenitore sigillato e portò la bevanda fumante al detenuto, condannato a vita due giorni prima. L’ergastolano afferrò il vassoio, ne estrasse la tazzina, si ritirò in bagno e dopo pochi secondi ne uscì gridando, prima di stramazzare sul pavimento sbavando. Quel detenuto si chiamava Michele Sindona.
Oggi sono trent’anni esatti dal caffè al cianuro di sodio che chiuse la funambolica esistenza di Michele Sindona. Sindona fu banchiere, mafioso, massone, truffatore, gangster, impostore, teatrante e latitante. Partì da Patti, in Sicilia, stesso luogo di origine della famiglia di Enrico Cuccia, arrivò a New York costruendo un impero finanziario fondato sull’occultamento di capitali nei paradisi fiscali, ebbe importanti relazioni con il presidente americano Nixon, con le massime gerarchie vaticane, col cardinale Marcinkus e naturalmente con Licio Gelli.
Nel 1974 fu insignito del titolo di “salvatore della lira” da Giulio Andreotti, il quale negò di aver mai pronunciato quell’encomio ma non poté smentire di averlo incontrato due volte da latitante, negli Stati Uniti, nel 1977, e non poté negare di aver brigato assieme a Franco Evangelisti per difenderlo dalla giustizia italiana, che per anni attese la sua estradizione dall’America dopo averne smascherato bluff e imbrogli. Così come la storia non può negare l’arresto di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, dirigenti della Banca d’Italia, colpiti senza colpa per il solo fatto di essersi opposti a Sindona e alle sue intimidazioni.
Prima del suicidio mascherato da omicidio, farsa finale di una vita di messinscene, Sindona aveva finanziato con decine di milioni al mese la Democrazia Cristiana poi, finito nelle mani della mafia cui aveva bruciato ingenti capitali, prese a minacciare, ricattare, insinuare, quindi dall’agosto del 1979 si finse vittima di un sequestro architettato da una immaginaria formazione di sinistra, una prigionia inventata durante la quale vagò tra Stati Uniti, Grecia e Sicilia, arrivando a farsi sparare ad un piede per rendere più credibile la sua recitazione. Nei mesi precedenti aveva commissionato ad un mafioso del clan dei Gambino otto telefonate di minaccia da indirizzare all’avvocato Giorgio Ambrosoli, incaricato di liquidare la Banca privata Italiana che Sindona aveva fondato e mandato allo sfascio, ma siccome Ambrosoli era uomo tutto d’un pezzo pur sapendo bene di dover morire continuò a fare il suo lavoro. Allora Sindona chiuse la partita assumendo William Arico, killer italo-americano, e spedendolo sotto casa di Ambrosoli, l’11 luglio del 1979, dove Arico sparò a morte all’avvocato precisando, un attimo prima dell’esecuzione, che non si trattava di “nulla di personale”. Ai funerali di Ambrosoli nessuna autorità dello Stato fu presente, la prima lapide in sua memoria venne scoperta vent’anni dopo e, in una delle sue ultime interviste, Andreotti ebbe la faccia di dire che Ambrosoli la morte “se l’andava cercando”, senza risparmiare alla telecamera un ghigno.
Perché ripeto fatti che già conoscete? Perché io mi sono sempre chiesto come questo mescolarsi di mafia, politica e affari sia stato possibile nell’Italia di quegli anni, come possa averlo accettato e lasciato trascorrere senza troppo indignarsi l’opinione pubblica del tempo, come possa avere permesso che l’uomo più potente d’Italia continuasse ad essere l’uomo più potente d’Italia nonostante questa scia di sangue, nonostante il sacrificio di innocenti, nonostante queste amicizie compromettenti.
Ieri era un mese dalla morte di Umberto Eco. Il suo ultimo romanzo, Numero Zero, è stato stroncato o ignorato dai critici del mainstream. Io l’ho trovato invece vero ed onesto – lo so che per Eco ci si attendono altri aggettivi – come l’ammissione finale di un uomo che, all’ultimo atto della sua vita, non abbia ancora capito se la democrazia italiana dalla stampa ci abbia guadagnato o perso.
Eco racconta la redazione di un giornale nato nel 1992, all’inizio di Mani Pulite, dall’iniziativa di un imprenditore senza scrupoli, che del giornale intende servirsi solo per ricattare ed intimidire avversari o soci in affari. In quel giornale lavorano, oltre al protagonista Colonna, anche (non solo, ma anche) bravi giornalisti raccattati in redazioni improvvisate ma mai davvero affermatisi perché così va il mondo, ottimi giornalisti al comando di un direttore che forse fu anche lui un grande giornalista, prima che ogni illusione cadesse e il servo che aveva in corpo assumesse il completo controllo delle sue azioni. Giornalisti capaci ma costretti ad accettare di lavorare in un giornale brandito come una clava, disposto ad ogni mistificazione e banalizzazione, a nascondere la notizia o a crearla quando serve. Giornalisti bravi ma anche uomini dei servizi segreti infilati dentro la redazione (ne ho conosciuti anche io, nel mio piccolo) e semplici esecutori di ordini, incapaci di ogni slancio di coscienza o facoltà critica. E quando uno di quei bravi giornalisti prova a fare il suo lavoro, quel giornalista muore.
Simei, il direttore di questo giornale di merda, descrive la sua missione con queste parole, parlando alla redazione: <<Lo so che si è sdottorato sul fatto che i giornali scrivono sempre operaio calabrese assale il compagno di lavoro e mai operaio cuneese assale il compagno di lavoro, va bene, si tratta di razzismo ma immaginate una pagina in cui si dicesse operaio cuneese eccetera eccetera, pensionato di Mestre uccide la moglie, edicolante di Bologna commette suicidio, muratore genovese firma un assegno a vuoto, che cosa gliene importa al lettore dove sono nati questi tizi? Mentre se stiamo parlando di un operaio calabrese, di un pensionato di Matera, di un edicolante di Foggia e di un muratore palermitano, allora si crea preoccupazione intorno alla malavita meridionale e questo fa notizia…Siamo un giornale che si pubblica a Milano e non a Catania e dobbiamo tenere conto della sensibilità di un lettore milanese. Badate che fare notizia è una bella espressione, la notizia la facciamo noi, e bisogna saperla far venire fuori dalle righe>>.
Cosa c’entra tutto questa pappardella sui giornali con il Sindona dell’inizio? Credo che se in questo mezzo secolo i giornali avesse cercato le notizie vere, invece di inventarne di finte, forse avremmo un’opinione pubblica più consapevole. E Umberto Eco non avrebbe finito la sua vita col dubbio che i giornali, anziché rafforzare la democrazia, l’abbiano indebolita.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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