Fu in una triste, tristissima giornata di febbraio del 2004, che Marco Pantani, uno dei più amati campioni dello sport degli ultimi anni, a soli 34 anni, ci lasciò, increduli e attoniti. Alcune rivelazioni, oggi, riportano indietro le lancette dell’orologio all’avvenimento che più di ogni altro ha decretato il declino del campione, alla vigilia della tappa dell’Aprica del Giro d’Italia del 1999. Queste rivelazioni sostengono che l’esame antidoping del ciclista fu alterato da una organizzazione criminale legata alle scommesse clandestine. Pantani stava vincendo il giro d’Italia con oltre 5 minuti e mezzo di distacco. Mancavano poche tappe alla fine del Giro, una particolarmente favorevole alle caratteristiche di Pantani e poche altre insignificanti per la classifica. In pratica aveva vinto. Come se una squadra di calcio vincesse 4 a 0 a 5 minuti dalla fine. Puntavi contro Pantani, insomma, e vincevi un patrimonio. Ma facciamo un passo indietro. Sono due le costanti della vita di Marco Pantani. Uno straordinario talento, messo in luce sin dalle categorie giovanili, dovuto ad un raro rapporto tra il peso (54 kg) e la potenza espressa (400 watt in soglia), che gli consentiva prestazioni straordinarie in salita, e l’incredibile sequenza di eventi sfortunati che ne hanno più volte interrotto la carriera, senza i quali, certamente, il suo palmares sarebbe stato di molto superiore. Prima del fattaccio ora di nuovo in agenda, infatti, Pantani aveva subito la bellezza di 5 gravi incidenti dovuti a cadute in bicicletta, tutti in grado da soli di interrompere la carriera di un ciclista. Marco Pantani no, tutte le volte si era rialzato e, con fatica, aveva ripreso a gareggiare. E tuttavia la sequenza ripetuta di quelle disavventure può certamente aver minato la serenità del campione, nel momento in cui, per ragioni diverse, la sfortuna ha proseguito ad accanirsi contro di lui. Torniamo ora a quel giorno. Vorrei spiegare, nel modo più semplice possibile, per capire cosa può essere successo, il quadro generale della situazione. Erano quelli tempi davvero brutti per il ciclismo. Sport massacrante, il ciclismo, dove la fatica disumana induce in tentazione. E attorno ai ciclisti, per indurli in tentazione, si affollano gli stregoni. Negli anni ’90 una nuova sostanza aveva fatto irruzione nel mondo del ciclismo, l’EPO, acronimo di Eritropoietina. Una sostanza artificiale in grado di rendere più denso il sangue, e di aumentare il metabolismo dell’ossigeno e quindi la resistenza dell’atleta. Con una particolarità: l’EPO artificiale, all’epoca, non si distingueva da quella naturale presente nell’organismo, e quindi non risultava all’antidoping. I ciclisti che iniziarono ad usarla, sicuri del fatto che non c’era modo di scoprirla, migliorarono le loro prestazioni notevolmente, escludendo dalle prime posizioni gli altri. Fu una spirale folle che finì per coinvolgere quasi tutto il gruppo, perché ormai chi non ne faceva uso veniva staccato alla prima salitella. Mentre l’antidoping lavorava per scoprire dei test idonei, la salute dei ciclisti fu messa a rischio da quella folle rincorsa. Malattie della circolazione a ripetizione e persino alcune morti sospette funestarono il mondo del ciclismo. Alla fine si trovò una soluzione, sostenuta dagli stessi ciclisti. Se un ciclista fosse stato trovato con l’ematocrito superiore a 50, sarebbe stato fermato per 15 giorni per ragioni mediche. In pratica si stabiliva un nuovo principio di legalità sportiva, in assenza di un test specifico per quella sostanza. Un principio basato sugli effetti indiretti della sostanza incriminata, in questo caso l’indice di ematocrito, che in genere resta compreso tra il 42 e i 48 negli atleti allo stato naturale. Tuttavia, in assenza di una prova di colpevolezza, si utilizzava lo stratagemma della salute del corridore per poterlo fermare e dunque impedire di proseguire con l’attività illecita. In pratica, in questo modo, l’utilizzo della pericolosa sostanza non poteva essere bandito completamente, ma almeno limitato ad una modica quantità. Arriviamo dunque a quella giornata. Pantani venne stranamente trovato, la mattina presto, con l’ematocrito alterato a 52. Strano davvero, perché tuttalpiù i ciclisti che si volevano drogare, sapevano che non potevano superare quel valore e si limitavano, giocavano sul filo del rasoio. Tutti sapevano che dovevano limitarsi e stare dentro i 50 di ematocrito. Infatti si mormora di ciclisti vincitori del Giro con valori di 49 e rotti. Gli staff medici delle squadre controllavano pedissequamente che quel valore non fosse superato. Anche Pantani, la sera prima, presentava un valore di 48, che pare fosse il suo valore standard naturale. Che senso poteva avere per Pantani rischiare l’esclusione da un Giro che aveva praticamente già vinto? Pantani fu dunque trovato con il valore alterato. La sera stessa, la controprova eseguita dal suo staff medico, avrebbe dato come valore nuovamente 48. Oggi i magistrati sostengono che gli elementi raccolti, in particolare le intercettazioni, relative alla possibilità che il plasma di Pantani sia stato “deplasmato”, alterato in modo da presentare quelle caratteristiche, sono verosimili, anche se non completamente comprovabili. Quella che sembrava una sparata giornalistica, roba per ingenui complottisti e buona per gli adoratori del mito pantanico, incomincia ad assumere aspetti inquietanti, anche se tuttora piuttosto lontana da essere davvero credibile. Tuttavia credo che una operazione di questo tipo, ordita dalla malavita, ammesso e non concesso, non si sarebbe potuta attuare senza il coinvolgimento di un mondo, come quello del ciclismo, che incominciava a provare fastidio per la presenza totalizzante di Pantani. La straordinaria popolarità di questo campione, in grado di vincere gare in una maniera entusiasmante, aveva finito per ridurre l’intero mondo del ciclismo a comprimario. Al punto che alla vigilia di gare per velocisti, come la Milano – Sanremo, si parlava di Pantani più che dei veri favoriti della gara. E nel ciclismo ci sono sponsor che investono fior di quattrini per avere un minimo di visibilità. Anni davvero duri per il ciclismo quelli, fino al giorno in cui non si scoprì che, incrociando i campioni di sangue e di urina, l’Epo poteva essere rintracciata. A distanza di anni, si scoprì, grazie alle provette congelate, che alcuni dei più grandi campioni dell’epoca, si pensi a Lance Armstrong, facevano un abuso di Epo notevole. La figura di Pantani, perciò, incominciò ad essere vista, in certi ambienti, dopo quel fermo medico, come il simbolo di quel ciclismo marcio. Nonostante non fosse mai stato trovato positivo ad un controllo antidoping, a differenza di tantissimi ciclisti dell’epoca mai interessati da inchieste giudiziarie, Pantani finì nel vortice della Giustizia. Per Pantani fu la fine. Un atleta non è psicologicamente in grado di allenarsi in quelle condizioni. La principale di quelle inchieste fu relativa ad un valore di ematocrito alterato riscontrato durante le analisi fatte alcuni anni prima, nel 1995, durante il grave incidente della la Milano – Torino, in cui Pantani fu investito da un’auto e riportò diverse fratture. Dopo lunghe vicissitudini giudiziarie, Pantani fu assolto, perché all’epoca del fatto il reato non era previsto come tale. Una azione giudiziaria che, forse, non doveva neppure essere intrapresa. Anche perché, in seconda istanza, quel fatto incriminato, l’uso di sostanze dopanti, non era neppure compreso all’epoca dei fatti nella tipologia criminosa, la frode sportiva. Una azione giudiziaria che, per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la giurisprudenza, appare davvero incomprensibile. Pantani, insomma, era diventato ormai il capro espiatorio del marciume di un intero mondo. Intendiamoci, non che Pantani non facesse parte di quel mondo. C’era dentro fino al collo. Ma crocifisso sulla croce ci finì lui e basta. Nel frattempo, la psiche di Pantani era andata al macero. Il “Pirata” ormai non usciva neppure più di casa. Più volte ricoverato in clinica per una grave forma depressiva, in preda all’alcool e alla droga, Marco, ormai, era lo spettro del campione che spianava le salite con le mani basse sul manubrio, come solo lui sapeva fare. Una tomba aperta lo attendeva in fondo all’ultima discesa. E’ di queste ore, però, la pubblicazione di una perizia medica sugli esami che Pantani ha eseguito poche ore dopo l’esame incriminato. Al perito medico gli si chiedeva se era possibile che l’ematocrito potesse aver subito una tale variazione in poche ore, tornando a livelli normali. Secondo il perito, tale variazione è difficile ma possibile, spiegabile con l’idratazione. Quello che invece non è possibile variare, è il valore delle piastrine, che nel secondo esame risulta anch’esso tornato nella norma. La diversità dei due valori è spiegabile solo con l’alterazione del primo campione di sangue, quello incriminato, la “deplasmazione”, insomma, della provetta di Marco Pantani. Questo è quello che dice la perizia. E il Pirata, Marco Pantani, oggi, potrebbe tornare protagonista, e vincere come ai bei tempi. Se infatti la perizia dovesse essere confermata, per Pantani si riaprirebbe la possibilità che gli venga assegnato, in giudizio sportivo, quel maledetto Giro del 1999.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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