Pubblico nuovamente un articolo uscito un anno fa, per la rubrica “il personaggio del giorno”, dal titolo “l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”.
Io, di solito, non mangio carne di agnello. Mangiare quel tenero batuffolo di ovatta, con quella vocina lieve da virgulto, che strazio. Perché l’agnello è un cucciolo. Tuttavia sono grato a chi lo mangia, l’agnello, per un paradosso che andrò a spiegare. Naturalmente, il paradosso che andrò a spiegare, non vale per chi, per forza di cose, vuole inventarsi un mondo di buoni buoni e di cattivi cattivi, in modo da sentirsi sempre dalla parte dei buoni buoni. Costoro possono anche non leggere, non capiranno. Dicevo dunque che sono grato a chi si mangia l’agnello a Pasqua, non solo per amore di questa terra, della mia terra che produce i migliori agnelli del mondo. Se mancasse la pastorizia, significherebbe la rovina economica dell’isola. Sono grato a chi si mangia l’agnello non solo perché è un cibo genuino. Sono grato a chi mangia l’agnello perché, grazie a lui, pur nella sue breve vita, l’agnello può campare felice qualche mese. Qualche mese di felicità in più per quel cucciolo. Vi siete domandati cosa succederebbe se nessuno mangiasse più gli agnelli? Non ve lo siete domandati, lo so. Altrimenti una riflessione un po’ più compiuta, oltre l’emotività del momento, ne sarebbe scaturita. Partiamo dal presupposto che si sacrificano gli agnelli maschi. Poveri maschietti! Allora, se nessuno dovesse mangiare questi agnelli, essi si trasformerebbero in pochi anni in montoni. Ma un gregge di montoni non si è mai visto. Nessun pastore potrebbe mantenere un gregge con tanti montoni, perché entrerebbero in competizione per il cibo con le pecore e gli agnelli. In pratica, il gregge collasserebbe, e ne pagherebbero le conseguenze pecore e agnelli, gli anelli deboli, che morirebbero di fame. Le pecore non mangerebbero abbastanza erba per produrre il latte. Ecco perché vengono sacrificati gli agnelli maschi, e sarebbe un ignobile spreco se venissero distrutti senza essere consumati. Se nessuno dovesse mangiare gli agnelli, essi verrebbero dati ai cani, o abbandonati ai corvi, alle volpi e ai cinghiali che li mangerebbero vivi appena nati, senz’altro, perché l’allevatore non è in grado di mantenerli. Solo nella prospettiva che ci sia qualcuno che consumi quella carne, all’allevatore è data la possibilità di mantenere vivi gli agnelli per quei mesi in cui vive libero e felice. Migliaia di anni fa si costituì una particolare simbiosi a tre, tra l’uomo, il cane, e la pecora selvatica, simile al muflone. Il cane proteggeva il gregge dalle fiere carnivore, che per questo stava unito e compatto, e l’uomo procurava il cibo per tutti, in cambio del prelievo del latte e di un po’ di carne per il suo sostentamento. E’ un ciclo vitale che dura dal neolitico e che unisce, con la comunione della carne, queste tre specie animali, tanto da entrare dentro la mitologia simbolica della religione. L’agnello toglie i peccati del mondo perché, con il suo sacrificio, tiene simbolicamente in piedi il ciclo vitale delle cose. Ma l’uomo oggi, nel suo comodo divano, tra le pareti domestiche, davanti al tablet o al televisore, abituato a mangiare cibi in scatola che non devono, per cultura, avere forma e neppure il sapore di animali o piante, si è talmente allontanato dalla natura che, il meraviglioso ciclo naturale delle cose, non è più in grado di comprenderlo. Se nessuno consumasse agnelli, dunque, essi non vivrebbero neppure quei pochi mesi che gli vengono dati, che sono uno scampolo di vita felice strappata ad un destino altrimenti ancora più crudele e ingiusto. Capire questo è la conseguenza di un semplice ragionamento logico, di una riflessione semplice ma compiuta. Ma come oggi si tende a spezzare il ciclo naturale delle cose, allo stesso modo si tende a non concludere le riflessioni, a lasciarle a metà. E’ un segno dei nostri tempi veloci e frenetici, dove il pensiero non è circolare ma si ferma a mezz’aria, incompiuto.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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