L’attacco suicida alle torri gemelle di New York dell’11 settembre 2001 fece poco meno di 3000 morti e viene ricordato come il più feroce attentato terroristico dei nostri tempi. Pochi, invece, ricordano che sei anni e due mesi prima, l’11 luglio del 1995, in una città al confine tra la Bosnia e la Serbia vennero trucidati 8372 maschi musulmani. Civili, non militari. Radunati in una piazza, legati, uccisi e gettati in fosse comuni, mentre al resto della popolazione gli aggressori serbo-bosniaci infliggevano umiliazioni e atrocità di ogni genere. La città di quel massacro si chiama Srebrenica e in Occidente il clamore per il genocidio subito dalla sua popolazione è rimasto in fin dei conti poca cosa, se misurato attraverso lo spazio nelle cronache e l’intensità del nostro ricordo.
Oggi Radovan Karadzic, leader dei serbo bosniaci in quel 1995, è stato condannato a 40 anni dal Tribunale internazionale penale de L’Aja, che lo ha riconosciuto colpevole di genocidio. Condannato anche il generale Ratko Mladic, a capo delle forze serbe penetrate a Srebrenica. Srebrenica è il più grave atto di guerra contro la popolazione civile avvenuto dopo la seconda guerra mondiale e fu l’abietto culmine della guerra di Jugoslavia, divampata nel 1992 dopo lo sgretolamento dell’impero sovietico e il referendum con cui la Bosnia si proclamò indipendente dalla Serbia. I serbo/bosniaci volevano una Bosnia culturalmente e religiosamente omogenea, dunque libera dai musulmani. Per ottenere questo risultato attuarono con implacabile violenza la pulizia etnica, espressione coniata proprio in quel contesto bellico. Uno dei maggiori interpreti di questa politica di sterminio fu Zeliko Raznatovic, noto come comandante Arkan, che al comando delle sue Tigri uccise migliaia di civili nei villaggi della Bosnia, trasportando nella guerra la violenza ultra nazionalista che già lo aveva contraddistinto da capo ultras della Stella Rossa di Belgrado.
Perché quel ricordo, così recente e terribile, sembra toccarci solo di striscio, benché avvenuto alle porte di casa? Perché l’occidente, di quella strage, fu pienamente responsabile. Srebrenica doveva essere, quell’11 luglio del 1995, sotto la protezione dell’Onu e dei soldati olandesi, destinati a presidiare quell’area. Ma i soldati olandesi non fecero nulla per impedire il genocidio e, anzi, i suoi ufficiali vennero filmati mentre brindavano assieme a Mladic, mentre alla periferia della città la macelleria era in corso. Un po’ come accadde l’anno prima in Ruanda, mentre gli Hutu uccidevano e mutilavano le comunità Tutsi. Ecco perché quegli 8372 musulmani legati, seviziati, trucidati e gettati in fosse comuni sembrano riguardarci poco. I morti, si sa, non sono tutti uguali. E per la maggior parte di quelli di Srebrenica non si riuscirà mai a far corrispondere i pietosi resti riemersi dalla terra ad un nome.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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