“Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non è la vita passata, ma la futura”.
Lo riconoscete? E’ Giacomo Leopardi, Operette morali. E’ la tesi finale del “Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere”, al quale, sul piano dello stile di scrittura (“desueto”, premette), Sabino Cassese si è ispirato in questo suo “La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia”, uscito a gennaio dal Mulino.
E’ un magnifico manuale di istruzioni per l’uso del cambiamento d’epoca politica che viviamo; un bugiardino che ci insegna come assumere l’inevitabile farmaco limitando gli effetti indesiderati; un “bignami” che ci aiuta a riassumere la materia per affrontare l’interrogazione alla quale i tempi nostri ci sottopongono ogni giorno, ma che dei “bignami” ha solo la sintesi e non la superficialità, conservando tutta l’affascinante complessità del pensiero originale.
Cassese, docente alla Luiss, già ministro e giudice costituzionale, raccoglie in questo libro le sue riflessioni pubblicate sul Foglio nel biennio 2017-2018, gli anni in cui la democrazia fondata sulle costituzioni liberali, che dal secondo dopoguerra ha garantito civiltà, progresso e benessere mai visti prima, è entrata in crisi.
Questo sconvolgimento, dice Cassese, ha tre poli: gli Usa di Trump, l’Inghilterra della brexit e l’Italia di questi giorni, che assume così secondo lo studioso un triste valore ecumenico.
Cosa c’entra Leopardi? Forse solo un fatto di stile, come spiega Cassese, che a proposito di questo metodo, che in fondo consiste in un’intervista con sé stesso, cita anche altri pensatori del passato. Lo scopo, aggiunge, è quello di insegnare a “saper vedere la politica” (parafrasando lo storico dell’arte Marangoni) seguendo un insegnamento metodologico di Spinoza: senza piangere e senza esprimere indignazione, ma cercando di capire.
Quindi la grande depressione che ha investito classi politiche ed élite e che prende i nomi di populismo, democrazia in crisi, sovranismo e globalizzazione, è un fatto da esaminare in maniera leggera e asettica? Penso che sul piano del metodo Cassese rispetti la promessa. E questo è molto utile al fine “manualistico” dei suoi dialoghi. Tuttavia la preoccupazione trapela in questo libro dove la forma lieve e gradevole, nella sua trasparente sincerità, tradisce umori e malumori dell’autore.
Forse le ripetute citazioni leopardiane non sono soltanto un richiamo all’abito dialogico del brano delle “Operette”, ma anche al significato di fondo di quel colloquio che sicuramente a Cassese sarà venuto in mente. Quello dove il passeggere sostiene che la vera felicità è l’attesa di qualcosa che non si conosce, è la speranza di un futuro migliore del passato e del presente. Considerando che a questo assunto Cassese aggiunge di fatto il convincimento che i veri problemi non riguardano il passato prossimo e il presente ma soprattutto il presente.
Cosa fare, comunque, per costruire questo futuro?
Leggendo i dialoghi ci arrivi in maniera direi spontanea, come se non fosse lo stesso Cassese a condurti con mano leggera: difendere un’Europa che pur nei suoi immensi difetti e nel suo ancora breve percorso sta garantendo a tutti i popoli membri sicurezze prima inimmaginabili; e difendere la democrazia soprattutto capendone il senso vero, intendendola cioè non soltanto come principio di maggioranza, come una scheda da lasciare cadere nell’urna, ma soprattutto come un delicato equilibrio di poteri autonomi che ci tutela dagli abusi di chi vince le elezioni.
In sostanza leggere questo libro è come assistere a una grande e gradevole lezione di metodo e di cultura democratici.
Di primario interesse, in questo infinito periodo elettorale, il problema della designazione della classe politica, cioè il ruolo che i partiti hanno svolto da quando il suffragio universale, con lo sterminato numero di persone chiamate a esprimere il voto, ha reso impossibile un rapporto diretto tra società e Stato, richiedendo un istituto di mediazione. I partiti, allora, per molti anni hanno selezionato il personale politico, aggregato la domanda, hanno formato volontà collettive.
In questo biennio di svolta è quindi venuto a mancare con essi uno strumento fondamentale della democrazia.
I partiti, ormai, sono soltanto “piedistalli dei loro leader”.
E quel pessimismo latente di cui si diceva emerge per esempio in certe considerazioni sul Partito Democratico, che dovrebbe custodire più di tutti certi valori. Cassese chiede a sé stesso: “Come giudica quel che sta accadendo nel Pd?”. E risponde: “Assisto attonito a questo fragore di guerra, nel vuoto della politica, dei politici e delle regole. Le fazioni sono divise dal nulla programmatico, solo dal bisogno di individuarsi per dividersi”.
E’ un passaggio scritto in epoca prezingarettiana ma direi che le cose non sembrano cambiate di molto se assisti a certe manifestazioni esibite sui terrazzi romani mentre nei quartieri periferici della stessa città si lascia un eroico adolescente a confrontarsi da solo contro i fascisti che cavalcano apparentemente vittoriosi populismo, razzismo e intolleranza coltivati dagli uomini al governo del Paese.
Anche le tanto esibite “primarie”, sostiene Cassese, nella confusa accezione italiana sono in fondo un pallido sostituto della scomparsa democrazia interna dei partiti, a ben vedere un espediente di origine populista che risponde come tante altre invenzioni a una frastornata richiesta di democrazia che significa più che altro apertura di canali diretti con il potere.
Il problema è quindi quello della classe dirigente. Scrive Cassese: “In Italia abbiamo una democrazia debole proprio perché è debole la classe dirigente. Il personale politico nazionale è scelto dai vertici dei partiti, cioè dalla sommità del nulla”.
E c’è un ammonimento anche alla sua categoria, quella degli intellettuali. L’intellettuale (citando Erwin Panofsky, un altro storico dell’arte, ciò che fa riflettere anche su una possibile natura “estetica” di questa riflessione politica di Cassese) vive isolato come una sentinella in una torre di guardia: deve osservare e capire il mondo e quando occorre lanciare l’allarme perché chi di dovere vada in battaglia. “Ecco, qui vedo una carenza di noi intellettuali: non abbiamo cercato di comprendere il mondo, non siamo stati pronti a suonare l’allarme, siamo stati troppe volte tentati dal desiderio di indossare noi stessi le armature per la battaglia”.
Il che mi fa ritenere che se in una eventuale drammatizzazione del dialogo leopardiano ci fosse da attribuire un ruolo a Sabino Cassese, personalmente sceglierei senza pensarci due volte quello del passeggere, cioè colui che, cortese ma implacabile, induce il venditore di almanacchi a pensare con meno gaia superficialità alla sua vita e alle sue speranze.
Anche se infine l’almanacco lo compra, quello da trenta soldi: il più bello.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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