Era l’anno 2000, quello del World Pride in Italia, quando un giornalista Rai si rivolse a Gianni Delle Foglie, storico gestore della libreria gay Babele scomparso qualche anno dopo, chiedendogli una riflessione sulle polemiche legate alla manifestazione che avrebbe portato a Roma, durante il Giubileo, più di un milione tra lesbiche, omosessuali e transessuali da ogni parte del globo. Il militante, riferendosi all’opportunità o meno di marciare nella città sacra, quel giorno rispose: «Lasciateci stare, questa è una guerra tra froci!» Lo stesso concetto espresso qualche tempo dopo da Aldo Busi durante una puntata di Uno contro tutti, condotta da Maurizio Costanzo: «Ma sì, si sa che i preti sono tutti froci!» scatenando così l’ira dell’Osservatore Romano e dell’Avvenire, nonché di tutta la nomenclatura vaticana che decise in un primo momento persino di portarlo in giudizio. Altri tempi, si potrebbe dire, perché in quegli anni di militanza e di lotta dura fino all’ultima battuta, l’unico, il più grande e il più pericoloso nemico della Chiesa, di sempre, si credeva che fosse ancora fuori dalle mura leonine, che fosse altro dal corpus sacro e strusciante delle tonache sgargianti e sfarzose: gli omosessuali venivano combattuti a suon di documenti dove, a partire dagli anni Settanta, si è cercato solo di trasformarli in patetici e problematici esseri umani senza via di scampo, non tanto dall’inferno di dantesca memoria, quando dal loro personale travaglio esistenziale (che poi… la solita storia: in Italia, gli omosessuali o devono far ridere come nel Vizietto, o devono esseri trascinati davanti al tribunale della scienza che ne osserva le tare e le anomalie affettive). Ora però il nemico, tempestivo solo come una dichiarazione fatta in tivù può essere, e proprio come diceva Delle Foglie e Busi, pare si sia insinuato come un virus, e spunta fuori con la sua irruente sorpresa e la testa di pagliaccio da una scatola e la Chiesa implode nella sua struttura sempre più traballante con una serpe in seno, oltre che per l’imbarazzo. La pietra dello scandalo si chiama monsignor Krzysztof Charamsa, un teologo polacco di 43 anni che, qualche giorno prima dell’apertura del Sinodo sulla famiglia, decide per un coming out con i fiocchi davanti alle telecamere, presentando per giunta il suo affascinante compagno quarantenne (che chissà quanti vescovi avrà fatto morire d’invidia,) oltre che a un libro che parla proprio di omosessualità e Chiesa, di cui personalmente sentivamo poco il bisogno giacché che il Vaticano straborda di sorelle e zie ormai è il segreto di pulcinella. «Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità» afferma però Krzysztof, «sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana». (Corsera, 3/10/2015) Intendiamoci, il fatto che si tratti di un teologo poco importa. Il problema vero è che il Vaticano gli aveva affidato degli incarichi che oggettivamente è alquanto improbabile possano essere seguiti da un omosessuale «dichiarato», ovvero felice e orgoglioso. Un omosessuale felice e orgoglioso per chi coltiva la cattiva salute come molti dei cattolici integralisti, e non solo porporati vari, che difendono la famiglia naturale dalle insidie del gender, è un ossimoro. Perché il punto è tutto qui ed è sempre quello: l’ipocrisia, nient’altro. Di cosa credevate si stesse parlando? Se si fosse trattato di uno dei tanti «froci» di cui parlava Delle Foglie e Busi, nessun problema. Le alcove sono sempre state piene di uomini sposati alla Chiesa ma devoti a ben altro, fin da tempi non sospetti, come dimostrano anche le affermazionidi un certo Yayo Grassi – omosessuale dichiarato, argentino di origini italiane, che ha ricevuto a settembre, assieme al compagno in un’udienza privata, papa Francesco – che leggiamo su Repubblica del 5/10/2015: «Il coming out di monsignor Charamsa non è stato molto appropriato. Penso che monsignor Charamsa non abbia fatto alcun favore né alla causa degli omosessuali né a Papa Francesco». Altro che favore, è già tanto che la Cappella Sistina sia ancora in piedi! Inoltre, si potrebbe suggerire al caro signor Grassi che se lui e il suo compagno, oggi possono permettersi di ricevere un papa senza che questi non li condanni subito al rogo, lo dobbiamo a quella causa che il teologo ha difeso mettendoci come succede da più di quarantenni, la faccia e non solo. E che prima di lui, migliaia di militanti, per la loro felicità e il loro orgoglio, l’hanno fatto scendendo in piazza. Diciamo piuttosto le cose come stanno, appunto: un gay che con orgoglio rivendica la sua sessualità, è in ogni caso per la Chiesa un problema perché attiva un processo di autodeterminazione che sfugge alle regole dell’omertà e del silenzio, in cui la vita di un omosessuale cattolico è in ogni caso relegata. Niente gioia, niente felicità pubblica. Solo stanza buie che proteggono la famiglia vera, naturale, quella nominata dal Catechismo, da strane interferenze e che è l’unica a poter e dover essere pubblicizzata. Come ne L’ora di religione di Bellocchio: si può fare quello che si vuole, ma di nascosto. Chi te lo impedisce? In questo caso no, Charamsa ha le idee piuttosto chiare: «Arriva un giorno che qualcosa si rompe dentro di te, non ne puoi più. Da solo mi sarei perso nell’incubo della mia omosessualità negata, ma Dio non ci lascia mai soli. E credo che mi abbia portato a fare ora questa scelta esistenziale così forte – forte per le sue conseguenze, ma dovrebbe essere la più semplice per ogni omosessuale, la premessa per vivere coerentemente – perché siamo già in ritardo e non è possibile aspettare altri cinquant’anni. Dunque dico alla Chiesa chi sono. Lo faccio per me, per la mia comunità, per la Chiesa. È anche mio dovere nei confronti della comunità delle minoranze sessuali» (Corsera, 3/10/2015). Insomma, perché rompere i tabù, i delicati equilibri legati a un erotismo represso ma sublimato, cancellare tutte quelle regole che fanno della religione monoteista un discorso concentrato sul sesso e per il sesso? Le dichiarazioni di Charamsa, in un modo o nell’altro, sono pericolose e scandalose per molti, non per il contenuto in sé, ma perché non fanno altro che portare allo scoperto quelle tensioni, o meglio quelle contraddizioni che sono lo specificum di ogni monoteismo. E qui non c’entra quello che pensava e diceva Gesù di Nazareth dei Vangeli. Sappiamo perfettamente anche noi che Gesù nella sua vita si è occupato ben poco di questioni sessuali e che è considerato un vero rivoluzionario per l’epoca perché mise in discussione la tradizione ebraica. Ma non è lui che si è inventato il Cristianesimo. Non è lui che ha messo la questione coito, come direbbe Pasolini, al centro del dibattito dottrinale. L’ossessione per il sesso per la Chiesa è nata con Paolo di Tarso, il vero creatore di tutto il meccanismo che ci ha portato fino ad oggi a discutere di questi temi di una noia mortale. Il sessismo infatti è un problema legato all’Antico Testamento, nell’atto stesso della creazione si pone la questione di come Dio li fece e conseguentemente di come si debbano accoppiare. Tant’è che da allora, ovvero dalla prima pagina della Genesi, Dio avrà l’ingrato compito del guardone, e tutte le volte che un essere umano deciderà di fare all’amore, ci sarà lui a valutare la correttezza o meno di quel coito. E poi ci sono le Lettere paoline, che sono un capolavoro di mistificazione del pensiero di Gesù, che in eredità aveva solo lasciato la propria parola ad alcuni gruppi di fricchettoni che iniziarono così a predicare «peace and love» per tutti, e non una serie di condanne e insulti e risentimenti per tutti coloro che non erano casti e devoti. Ma da oggi mi sa che qualcosa è cambiato. Le dichiarazioni di questo teologo e quella stretta di mano calorosa di Bergoglio a quella coppia gay che gira per i media di tutto il mondo da settembre, non so se ha mandato in tilt il sistema, certo è che gli ha dato un bello scossone. Perché cambia proprio l’approccio al problema. Cambia soprattutto nell’immaginario collettivo: un papa che stringe la mano a una coppia gay e gli dice «coraggio!» non è la maledizione, ma sembra piuttosto un presagio! Ora sono proprio curioso di capire al Sinodo cosa saranno costretti a inventarsi per dribblare le parole di Krzysztof. Hanno già affermato che niente cambierà, ma sembrava più che altro un mettere le mani davanti. Certo è che non sarà sufficiente farlo sparire da ogni mansione che gli avevano affidato. A questo punto, però, non sarà neppure utile tirare fuori dal cassetto le solite sciocchezze sul gender. Anche perché non vorrei mai che il papa, durante quella stretta di mano, senza saperlo, si sia infettato del morbo. Perché si sa che di gender ferisce, alla fine di gender perisce!
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Il viale dell’Asinara. (di Giampaolo Cassitta)
Don Puglisi e la mafia. (di Giampaolo Cassitta)
Temo le balle più dei cannoni (di Cosimo Filigheddu)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
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Sanremo non esiste (di Francesco Giorgioni)
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Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
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