Sette, forse otto anni fa. Ero seduto sul terrazzino di una casa affacciata sul viale Costa Smeralda, ad Arzachena, quando i miei timpani vennero riempiti dal rombo mostruoso di un bolide rosso lanciato a velocità folle in mezzo al traffico estivo del paese. Era una Ferrari e la guidava Moutassam Gheddafi, il figlio più frizzante del colonnello. Qualche secondo dopo, col motore al massimo dei giri, mi passò davanti una Hyundai verde: quelli erano i poliziotti in borghese, incaricati di seguire il giovanotto, ovunque andasse. Anche quando, annoiato, non resisteva alla tentazione di allontanarsi da Porto Cervo, dove divideva il suo tempo tra la suite dell’hotel sulla piazzetta e lo yacht Al Fatah, ormeggiato al molo vecchio. Faceva tenerezza vedere l’utilitaria coreana lanciata all’inseguimento della fuoriserie di Maranello. O forse faceva rabbia, se si sapevano un po’ di cose.
Ho avuto a che fare con Gheddafi ed i figli un paio di volte. Ne parlo perché, attraverso questa esperienza, ho imparato ad essere diffidente verso le spiegazioni della diplomazia occidentale: non sempre chi meriterebbe di essere trattato da canaglia viene effettivamente trattato da canaglia e spesso gli interessi economici scavalcano le ragioni del buon senso. Alla fine del pezzo capirete il perché io la pensi così. Anno 2001. Lavoravo a L’Unione Sarda e il sito Dagospia di Roberto D’Agostino era da poco online. D’Agostino aveva un paio di fotografi al Billionaire che gli passavano le notizie. Così, nel primo pomeriggio, Dagospia strillò la notizia di una scazzottata tra Gheddafi junior e Flavio Briatore in persona all’ingresso del locale. Il ragazzo non voleva far la fila e Briatore gli fece capire che a casa sua comandava lui. Ovviamente cavalcammo la notizia. Io avevo lavorato nella sicurezza della Costa Smeralda fino ad un anno prima e non mi fu difficile recuperare una serie di succulente informazioni sul giovanotto. Arrogante, rissoso, spericolato in macchina, non sempre propenso a saldare i conti di ristoranti e discoteche. Dispettoso, anche. Scrissi un pezzo che oggi, forse, non scriverei, anche perché conteneva alcune imprecisioni. I fatti narrati, però, erano veri e verificati. Dagospia, a sua volta, lo rilanciò e così fece tutta la stampa nazionale, anche perché nel deserto agostano delle redazioni il gossip estivo assumeva un’importanza strategica. Non so bene cosa sia successo nelle ore successive. So solo che sul giornale piovvero proteste e minacce e che, il giorno dopo, a Porto Cervo venne spedito d’urgenza un inviato, affinché sentisse l’altra campana. L’inviato venne accompagnato sullo yacht da Marta Marzotto, legatissima alla famiglia Gheddafi, dove lo attendeva il fratello maggiore di Moutassam, Al Saadi, quello con una breve carriera da calciatore al Perugia di Gaucci. Ma Al Saadi all”inviato non disse una parola. Il pezzo riparatore venne scritto e pubblicato ugualmente, cosicché si giunse ad una risoluzione amichevole della controversia (non so, esattamente, cosa avessero minacciato i libici). A me, per essere chiari, nessuno rimproverò mai nulla, anche perché fui intervistato come esperto di risse al Billionaire dal Tg1 di Carlo Rossella, nell’edizione delle 20, con la testata del giornale in primo piano.
Anno 2006, lavoravo ad Epolis. Manuela Rafaiani, portavoce di Tom Barrack, mi telefonò per annunciarmi che per il giorno Moutassam Gheddafi aveva convocato una conferenza stampa all’hotel Cervo. Precisò che stava avvertendo i giornalisti per conto di un’altra persona e chiarì con molta decisione che lei e Barrack non c’entravano nulla con l’organizzazione dell’intervista. L’appuntamento era per le cinque a Porto Cervo, in piazzetta. Era agosto e il caldo quasi insopportabile provocava mugugni tra i pochi giornalisti presenti. Ad accoglierci, si fa per dire, al bar dell’hotel Cervo c’era la solita Marta Marzotto, la quale raccomandò a tutti i convocati grande discrezione nelle domande. Aspettammo due ore prima che il figlio del colonnello si degnasse di riceverci, nella sua stanza d’albergo. Portava i capelli lunghi e ricci, un gilet leggero ne copriva il petto ed era, indubbiamente, un uomo bellissimo: alto, muscoli scolpiti e un volto da attore. Ricordo un letto sfatto, due manubri da pesistica sul pavimento, i vapori di una doccia appena finita, poche parole biascicate in inglese dal ragazzone che, ad essere franchi, non sembrava del tutto in sé. L’inviato de La Nuova Sardegna, Piergiorgio Pinna, ruppe il ghiaccio con una domanda, ma fu subito chiaro a tutti che a rispondere ad ogni quesito sarebbe stata la signora Marzotto. Per farla breve, il figlio del colonnello voleva far sapere al mondo che la Libia, essendo un posto bellissimo, meritava le attenzioni dei turisti italiani. Questo, almeno, riportò la contessa. Era tutto stranissimo: il figlio di un dittatore che dalla vacanziera Costa Smeralda lancia un appello ai turisti affinché scelgano una destinazione concorrente, la tutela della Marzotto, la location di quella conferenza stampa. Chiamai urgentemente il giornale perché pensavo di scriverci due pagine, ma capii che alla collega che dirigeva il desk premeva molto ridimensionare la notizia. Che, in effetti, venne ridotta a poche righe. Anche gli altri quotidiani furono molto misurati nei resoconti della conferenza stampa, come se fosse preferibile non dire tutto tutto. Per chiarire, pochi giorni prima Moutassam aveva speronato con la sua Lamborghini nera la Mercedes di un tedesco, di ritorno dal ristorante del Pevero golf club di Cala di Volpe. Diedero la colpa al tedesco e non ci venne consentito di far domande sull’incidente.
Veniamo al punto. Perché vi parlo dei riguardi riservati al figli di un dittatore? Certo, perché Gheddafi ha investito ingenti somme di denaro ovunque, foraggiando industrie ed aziende italiane. Però, se ricordate, la Libia era considerata uno Stato canaglia, con pericolose relazioni col terrorismo. Anzi, diciamo pure comprovate da una sentenza. Ricordate il 21 dicembre de 1988? Ricordate la strage di Lockerbie? Morirono 270 persone, il doppio di quelle uccise a Parigi. Viaggiavano su un jet della Pan Am che dall’Inghilterra era diretto a New York e venne ridotto in mille pezzi quando volava a novemila metri di quota, sui cieli della Scozia. Una bomba a bordo distrusse l’aereo, facendolo precipitare sul villaggio di Lockerbie e causando undici vittime tra gli abitanti. Molti dei passeggeri del volo, stabilì l’autopsia, sopravvissero all’esplosione e rimasero in vita per tutta la picchiata, fino a terra. A bordo dovevano esserci anche Johnny Lydon, cantante dei Sex Pistols, e il tennista Mats Wilander, che però rinunciarono al viaggio all’ultimo momento. C’erano invece 20 studenti universitari americani che tornavano a New York per le feste di Natale, dopo un periodo di studi nel Regno Unito. Cosa c’entra la Libia? Ad essere condannato per quell’attentato, già dal 1991, fu un agente dei servizi segreti libici, Abdelbaset al-Megrahi, che secondo la sentenza aveva agito per conto del governo di Gheddafi. Quella verità venne poi messa in discussione, ma la sentenza questo ha stabilito. E in Italia ben lo sapevamo quando accoglievamo con tutti gli onori il colonnello a Roma, concedendogli anche di piantare le tende davanti a Palazzo Chigi, e quando concedevamo la scorta ai suoi turbolenti figli in Costa Smeralda. Magari ho messo assieme cose che non c’entrano nulla. Ma a me resta la sensazione che non tutti i terroristi vengano trattati allo stesso modo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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