Del mio amico ingegnere vi ho già detto qualche settimana fa nel post su Al Quaeda e le bombe che la logica consiglia di portarsi in valigia per viaggiare sicuri in aereo. Anni fa discutevamo, una sera, io e l’ingegnere amico mio, di essere e identità. L’ho detta difficile perchè in realtà ci vorrei infilare discorsi di ogni tipo. Di essere e identità si sono occupati i grandi del pensiero, da Parmenide a Platone, a Hegel, a Heidegger. E anche moltissimi altri in tutti i campi. Stringi stringi, le domande su ciò che è, diventano di questo tipo: cosa è? perchè è? come è? in che senso è? Domande astruse. Ma si sa, gli ingegneri non sono astrusi, altrimenti non mangiano, e l’amico mio ingegnere è uno a cui piace mangiare, specialmente il riso. E quella sera mi pose questa domanda: “Fino a quando la barca di mio padre è la barca di mio padre?” Poi si spiegò meglio. La barca in questione è un gozzo in legno di circa 4 metri. Un guscio di noce pensato per navigare vicino alla costa. Credo sia stata progettata e costruita intorno al 1928 col nome di”San Domenico” Da allora ha subito diversi interventi di manutenzione anche importanti, con sostituzione delle tavole dell’ossatura, del fasciame e della coperta, di volta in volta danneggiate o logore per la salsedine e le onde incassate. Ci sarà stato un momento in cui metà della materia ha lasciato il posto ad altra materia. E poi sarà arrivato anche l’istante (chissà quale tra i tanti) in cui l’ultima tavola originale è stata sostituita con un’altra. E dunque è legittimo chiedersi “è ancora la barca di mio padre? e se non lo è, quando ha smesso di essere lei? Quando è diventata un’altra barca?”
C’era sicuramente del vino o della birra, quella sera, e la bizzarria delle domande fu superata soltanto da quella delle risposte. Però la domanda di fondo, per me, è lì da anni, come una di quelle cose che vagano da uno scaffale all’altro, da un magazzino all’altro, perchè non sai come usarle ma non le vuoi buttare. Solo una cosa è rimasta, di quella barca varata nel 1928: il nome. Si chiama sempre San Domenico, perchè chi va per mare ha prove scientifiche per affermare che il nome non si cambia mai, pena sciagure inenarrabili. Credo dipenda dal fatto che i santi tendono a offendersi. Caz, pure loro…
Quella domanda me la sono posta di nuovo in questi giorni, pensando a coloro che sono usciti da Sardegnablogger e a coloro che sono entrati nel frattempo. Non siamo vecchi come il San Domenico, abbiamo meno di due anni. Ma salsedine e tempeste ne abbiamo già viste un bel po’, e abbiamo tutte le intenzioni di continuare a vederne. Molte delle tavole iniziali ci sono ancora. Altre non ci sono più. Tavole nuove sono arrivate e altre continueranno ad arrivare.
Mi sono dato, alla fine, questa risposta: siamo tavole. Barca o non barca, cerchiamo tutti di galleggiare e più o meno ci riesce bene. E dopo tutto il sale e la lotta con le onde, quel che resta è soprattutto un nome, un’idea, un progetto. Mi viene in mente l’esametro che chiude “Il Nome della Rosa”: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. La Rosa viene prima, la Rosa sta dietro il nome. A noi tocca occuparci, e accontentarci, dei nomi. (traduzione libera, se non vi piace pazienza).
Ma mi viene in mente anche il racconto su Tecla, una delle Città invisibili di Calvino, che racconta:
“Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla domanda: – Perché la costruzione di Tecla continua cosí a lungo? – gli abitanti senza smettere d’issare secchi, di calare fili a piombo, di muovere in su e giù lunghi pennelli. – Perché non cominci la distruzione, – rispondono. E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce: – Non soltanto la città. Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l’occhio alla fessura d’una staccionata, vede gru che tirano su altre gru, incastellature che rivestono altre incastellature, travi che puntellano altre travi. – Che senso ha il vostro costruire? – domanda. – Qual è il fine d’una città in costruzione se non una città? Dov’è il piano che seguite, il progetto?
– Te lo mostreremo appena terminata la giornata; ora non possiamo interrompere, – rispondono. Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. – Ecco il progetto, – dicono”.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design