Stamattina stavo facendo la mia corsa quotidiana. All’alba sono sempre da solo e tutto pensavo tranne che questa abitudine diventasse una prescrizione obbligatoria. Devo confessare che a un certo punto mentre guardavo la luce fare capolino mi è venuto da piangere, per la prima volta.
Non voglio mancare di rispetto a chi queste situazioni le vive davvero, ma sembra una guerra. Un conflitto atipico. In prima linea ci sono i medici e gli infermieri che ormai hanno dimenticato il significato della parola “riposo”. Ma nelle retrovie ci siamo noi. E come in ogni guerra ci sono i disertori, quelli che si consegnano al nemico e chi resiste con un minimo di lucidità. L’assurdità è che dappertutto può esserci un nemico, qualcuno che dobbiamo evitare per il nostro bene. E ogni tanto ecco il colpo di mortaio che esplode. Un contagio, un focolaio dove non c’era. Sembra un’esagerazione ma è l’unico modo per far capire: è una guerra. Contro noi stessi, contro le nostre abitudini e disubbidienze che favoriscono l’ingresso di un nemico.
Mi è venuto da piangere perché ho realizzato la mia inutilità. Io sono solo uno che deve stare attento. Poi non posso fare nulla di più. E non posso raggiungere nessuna delle persone care lontane, cioè tutte le parti della mia famiglia sparse per il territorio. Posso solo correre da solo, salutare da lontano e non abbracciare mio figlio quando lo vedo. Ma quello è il meno, da adolescente se provo a fare un gesto d’affetto mi schifa pure da sano. il contagio può esplodere ovunque, come una mina sotto il terreno. E poco serve dire “ma uccide solo gli anziani”, perché non mi sembra che in casa nessuno abbia genitori, nonni, zie o altro.
Se non capiremo questo, tutti, sarà come quando Leonida e i suoi dicevano che l’orda persiana era alle porte e nessuno degli altri greci gli credeva. In trecento contro migliaia, a resistere sapendo che la sconfitta è questione di tempo. Nel frattempo l’alba è sopraggiunta. Stanotte il cielo era sgombro da nubi e mostrava le stelle. ho pensato a noi. A chi ancora alle parole “amore, affetto, cura”, dà un significato denso e corposo. Noi non avevamo bisogno che ci venissero tolte quelle parole per capirne l’importanza. Proprio no. E mi è venuta in mente la strofa di una canzone che parla di un soldato che scrive dal fronte. Perché questo ormai è un fronte da cui scriviamo.
Sogno nell’ospedale da campo i feriti che tornano in sé e io che non sono più stanco, sto bene e vengo da te. Ti lascio che arriva già il buio e qui non si vede già più. Salutami tutti e rispondi, raccontami come stai tu. C’è un coro che mormora piano la più antica canzone che c’è. Vorrei che tu fossi vicino; sto bene e così spero di te.
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
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