Per un sardo, meglio se gallurese, “Il muto di Gallura” rappresenta un pezzo della sua anima. Così, armato della mia galluresità da parte di padre, ho guardato il film diretto da Matteo Fresi e tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Costa. Il lungometraggio si apre con la bellezza degli stazzi galluresi, la loro luce, la loro armoniosità con la natura ed io che in quelli stazzi ho vissuto moltissimi anni delle mie vacanze estive ho subito ritrovato le pietre, gli arbusti, quel giallo che abbraccia le colline e il lentisco. Poi la parlata “aggiese” diversa dal mio “calangianese” mi ha riportato in un passato che per certi versi avevo dimenticato. Suoni lontani ripescati nella memoria. Modi di dire, proverbi raccolti nei ricordi dei miei nonni, miei zii, hanno preso il sopravvento e i sottotitoli non li ho mai letti. Il film però (e ci sono molti però) non è partito. Non è riuscito a far scattare la vera scintilla della passione. E’ rimasto un immensa prova in un palcoscenico teatrale dove tutti recitavano – e non benissimo – la loro parti. Vestiti ben scelti, pettinature ben raccolte, barbe bene assortite e in alcuni uomini orecchini da pirata probabilmente eccessivi. Come la scena del Muto che regala l’orecchino alla bellissima e biondissima Gavina (mai conosciuta una Gavina bionda e con gli occhi azzurri) pareva la dichiarazione d’amore in ginocchio di certe serie d’oltreoceano. Bellissima la fotografia, ricercati i movimenti delle scene però (ancora un però) la storia dove si nascondeva? Più che un racconto di fine ottocento in Gallura pareva un western di Sergio Leone ma senza i famosi primi piani sugli occhi e gli sguardi muti degli attori. La produzione ha obbligato probabilmente il regista ad inserire qualche scena (quella del nudo integrale della bionda Gavina interpretata da Syama Rayner si poteva evitare) e forzare la mano su alcuni passaggi troppo “folkloristici” ma, a parte questo, è stata la recitazione la grande pecca di un film lento, lentissimo e con un soggetto troppo debole. Le scene finali, girate a Santa Teresa, erano quasi un obbligo alla richiesta mainstream di mettere “il mare” a tutti i costi quando si parla di Sardegna. Un’occasione persa? Non so. La fotografia è molto curata e Bastianu Tansu, interpretato da Andrea Arcangeli, era ben centrato. Forse è mancato più movimento, la vita normale che si viveva negli stazzi colorati con i bambini sempre pronti a correre tra le pietre e le capre. Se fosse un tema, il commento del correttore potrebbe essere: tutto ben orchestrato, scritto molto bene e molto ordinato. Manca solo una cosa: L’anima. Ecco, forse da mezzo gallurese mi aspettavo mi riportasse all’interno delle mia infanzia. Così non è stato. Forse non è colpa del film ed è un demerito dei miei ricordi troppo diversi da questo Muto di Gallura che merita comunque una visione. Tra la Sardegna e il west con qualche pausa di troppo.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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