Bisogna che lo dica che quelli non hanno inventato niente. Abituati come sono ad avere la primazia di tutto, si gonfiano come tacchini. E la Filosofia. E la Democrazia. E la Scultura. E la Retorica. Che palle! Con la storia delle coppie omosessuali stavano già mettendo le mani avanti: e Saffo qua e Socrate là. E ora la faccenda del referendum greco contro i tedeschi. Sembra che l’abbiano inventato loro. E invece il primo vero referendum antitedesco avvenne a Stintino nell’estate di quattro anni fa. La Germania ne uscì così sconfitta che nei giorni scorsi stentavo a credere che avesse tanto risollevato la cresta da permettersi di dire a destra e a manca come dovevano votare i greci.
Ma non le era bastata la lezione di Stintino? Ohé, c’è da dire che questi prussiani i calci in culo li metabolizzano come fossero Lievito degli Angeli. Il guaio è che poi li restituiscono con gli interessi – e che interessi! – sotto svariate ed esagerate forme. Dal genocidio alle blitzkrieg. E speriamo che ora la guerra lampo economica che hanno intrapreso gli vada a finire come quelle altre a base di cannoni e heil hitler. Possibilmente senza lasciargli il tempo di fare prima tutto quel danno.
Ma questo è un altro paio di maniche.
Dicevo invece del referendum greco di Stintino. Si tenne in una mattina di agosto vicino all’ultimo tratto della spiaggia della Pelosa (absit iniuria verbis. Questi stintinesi usano nomi curiosi: c’è anche la spiaggia di Coscia di donna, per dirne un’altra). Comunque lì vicino c’era un albergo. Ci dev’essere ancora. E questo albergo aveva ottenuto alcuni posti auto riservati accanto all’arenile.
Che forse voi che non andate a Stintino non capite bene che cosa vuol dire un posteggio alla Pelosa. Ho visto gente vendere la madre per un posteggio alla Pelosa. Anzi, nei periodi di grande affollamento si tenevano delle aste pubbliche di madri. Una volta stavo per comprarne una che costava poco ma me l’hanno soffiata sotto il naso.
Sta di fatto che questi posteggi erano sorvegliatissimi da guardie pesantemente armate e in divisa. Circolavano sottovoce racconti, non so quanto veri e quanto frutto di leggende, a proposito delle punizioni inferte ai trasgressori. Si parlava di un uomo che per due ore di posteggio abusivo era stato frustato e costretto a guardare la moglie sottoposta a violenza da parte di turisti padani che poi l’acquistarono per ripagare il debito maturato dal marito. Per un’intera giornata di posteggio abusivo la pena era quella capitale. E infatti una forca allestita quando Stintino ottenne l’autonomia amministrativa da Sassari, campeggiava ancora sul panorama dell’Isola Piana e dell’Asinara. I sassaresi erano stati di manica più larga. Purché avessero i loro spazi riservati, delle leggi se ne fregavano poiché consideravano Stintino una lontana colonia.
Quell’estate di quattro anni fa, dunque, io avevo appuntamento con mia figlia e alcuni suoi amici di ritorno dalla spiaggia. Dovevo farli salire in auto a riportarli in paese. Un obiettivo semplice sostenuto da un piano che avevo messo a punto con minuziosa attenzione. Prima telefonata di mia figlia quando avessero deciso di raccogliere gli asciugamani e lasciare la spiaggia; partenza verso la Pelosa (absit etc etc); seconda telefonata nella quale mia figlia mi dice a che punto della strada mi aspettano; fermata rapida, li faccio salire e riparto sgommando. Ma ogni grande progetto si arrende davanti alla naturale avversità dei fatti contro l’uomo. Avvenne che nel punto in cui mi attendevano non era possibile neppure la fermata in terza fila. Come accennai infatti ad arrestare la corsa, venni subito fatto oggetto di colpi di arma da fuoco, uno dei quali mi attinse per fortuna solo di striscio a una spalla. Naturalmente non mi ero avventurato alla pelosa disarmato. Oltre a un tirapugni di ottone, avevo con me anche la mia vecchia Beretta con la matricola abrasa, ma preferii non usarla perché proprio in quel momento mi accorsi che pochi metri più avanti uno dei posti riservati all’albergo era libero. Inchiodai proprio sotto il cartello di “Consentito ai signori clienti e al personale dell’albergo Ciccì Tour”. Cazzo, tra l’altro un nome così io mi sarei vergognato di scriverlo su un cartello. Vabbé che io mi chiamo Cosimo e me ne dovrei stare zitto. Ma sempre meglio di Ciccì Tour.
Comunque, scesi dall’auto rapido come un rapinatore, aprii le portiere, stipai in attimo figlia e amici nell’abitacolo, risalii con un balzo atletico e senza neppure allacciare la cintura ingranai la prima e mollai la frizione. Per fortuna riuscii a frenare giusto in tempo per non fracassare la fiancata a una gigantesca cabrio verde limo che all’improvviso mi aveva bloccato l’uscita. Alla guida un grosso e grasso vecchio dai pochi capelli, chiaramente artefatti, di una specie di biondastro e con ampie zone di cranio libere da capigliatura ma ricoperte di croste bianche. Non so, immaginatevi la forfora ma con scaglie tipo Corn Flakes Kellogg’s. Lei, la presumibile moglie, era travestita da Lina Wertmuller e il poco viso lasciato libero dagli occhiali era di quelli che quando lo vedi su uno che ti deve soldi pensi: “Bisogna che me li faccia dare subito perché questo schiatta da un momento all’altro”. Giallastro e grinzoso, insomma: perinde ac cadaver, come diceva quel prete spagnolo.
Li guardai cortesemente supponendo una manovra errata dovuta all’età e pensai che forse quel macchinone era troppo difficile da guidare per un signore che si poteva fare tutte le docce che voleva senza riuscire a levarsi di dosso l’odore di mogano. Invece lui tirò con calma il freno a mano mentre gli occhialoni della sua povera signora si girarono dalla mia parte. La sua bocca, nonostante fosse difficile capirlo a causa dell’avanzato stato di decomposizione, mi parve atteggiarsi in posizione di schifo e disappunto. E quando lui, inciampando più volte su terreno liscio come l’asfalto (era appunto asfaltato), venne verso la mia auto, capii che ce l’avevano con me.
“Italiano, naturalmente”, sospirò con un accento che ricordava Alighiero Noschese quando imitava Adenauer o Hitler, che faceva sempre la stessa voce.
“Anche lei, mi sembra”, dissi sentendomi in torto e leccandogli quindi sfacciatamente il culo per la sua ottima pronuncia.
“Dio me ne guardi”, rispose lui voltandosi sogghignante verso la de cuius dalla montatura bianca, che emise un raccapricciante gorgoglio. In seguito, ripensandoci, maturai il sospetto che fosse una risata, ma sul momento mi cagai addosso dalla paura.
“Noi siamo tedeschi”, continuò.
“Me ne compiaccio – commentai -. Non me ne ero accorto. Ma ora purtroppo devo andare via per accompagnare questi ragazzi. Se potesse spostare la macchina…”.
“Lei sa – continuò imperterrito – che questo posto è riservato ai clienti dell’albergo?”.
“Certo. E mi scusi se mi sono fermato. Ma è stato solo un attimo, con il motore acceso, e se lei si sposta le lascio subito il posto libero”.
“Non è quanto che conta, conta il principio. Ma voi italiani di principi… avete altro per la testa”. E si voltò ancora verso le spoglie in occhiali cercando un’approvazione che ottenne sotto forma di movimenti verticali del teschio.
Evidentemente incoraggiato da questa macabra esibizione si rivolse ancora a me: “Perché voi italiani non sapete comportarvi e non meritate quello che avete”, sospirò accennando con largo gesto al mare e alle isole.
Fu allora che si svolse il referendum antitedesco. Guardai mia figlia, che mi disse con suoi occhi di ghiaccio delle grandi circostanze. “Vai, babbo. E di brutto”. Volsi la testa verso i suoi amici e una, a nome di tutti, ribadì. “Vada, signor Filigheddu. E di brutto”.
Qui non era questione di sessanta o settanta per cento. Qui avevamo un cento per cento netto che pochi referendum raggiungono. Manco il Plebiscito fascista del ’34.
“Senti, crucco – dissi allora a Von Bismarck – Ora mi avete rotto i coglioni: tu e la morta. Le lezioni di educazione civica ficcatele su per il culo e sposta la macchina altrimenti te la cracco da un parte all’altra che poi già paga l’assicurazione. Sai, noi italiani ce ne intendiamo”.
Fu forse il timore di noie con l’automobile in vacanza e lontano da casa che lo indusse a rimettersi subito alla guida e fare una rapida marcia indietro. Uscii dal posteggio e percorsi un paio di metri, ma poi ripensai a quanto si crogiolava in quella cazzo di cabrio enorme e di marca indefinita che sembrava una di quelle Buick con le ali che si vedono ancora all’Avana. Devono essere due arricchiti, arguii.
Allora feci retromarcia e mi affacciai al finestrino: “E complimenti per il suo italiano. Siete camerieri qui all’albergo?”. E capii che quest’ultima li aveva feriti più dei vaffanculo.
Ripartii tra gli applausi degli astanti e la sera festeggiammo la vittoria elettorale con pizza e (absit etc etc) birra.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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