Ugo Pirro (il vero cognome era Mattone) è stato anche molto altro rispetto a “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, girato da Elio Petri nel 1970. Un altro oscar del grande sceneggiatore fu il “Giardino dei Finzi-Contini”, diretto da Vittorio De Sica, ma lavorò pure con Lizzani (tra l’altro, “Achtung, banditi!”), Bolognini, Pontecorvo, Squitieri e altri mostri sacri del cinema italiano. Alcuni dei quali, magari, successivamente sconsacrati. Pirro conserva comunque il titolo di uno dei maggiori interpreti e narratori dell’Italia post fascista: dove il post è un’etichetta che serve a coprire quel bel po’ di fascismo che ancora si aggirava nei meandri dello Stato. Parlo però soltanto del film più noto, “Indagine su un cittadino…”, appunto, perché parte da lì, e da quegli anni, una delle mille virate esistenziali provocate dal mio lavoro di giornalista, cominciato nel 1973: esperienze e riflessioni che mi hanno allontanato dalle verità con la sfumatura alla fiamma ossidrica dell’adolescenza e mi hanno catapultato in quell’enorme mondo di variazioni che spesso non ti portano da nessuna parte e che però rendono bella la vita. La storia la conoscete. Un funzionario di polizia viene trasferito dalla “Omicidi” all’Ufficio politico. Uccide senza veri motivi la sua amante e dissemina la scena del crimine di tracce che portano a lui. Vuole in qualche modo testare l’onnipotenza del potere che lui incarna; ma insieme, uomo contorto qual è, vuole pagare per il suo delitto. In quegli inizi di anni Settanta, per uno come me che si era formato nella sinistra comunista e movimentista degli anni Sessanta, quello era il simbolo del “capo della squadra politica”, come chiamavamo noi quei signori che qualche volta alle manifestazioni davano l’ordine al trombettiere di suonare la carica. Ed erano botte. Qui a Sassari, almeno per esperienza personale, sempre ricevute, mai ricambiate. Erano la polizia e gli uomini della polizia che vedevamo rappresentati nella narrazione dei fatti di piazza Fontana e il paradossale personaggio di Pirro non ci stupiva. Poi, con il mio lavoro, ho cominciato a frequentare i poliziotti non per prendere botte ma per prendere notizie da pubblicare. Ho imparato a conoscerli. E ho trovato molte conferme ma anche molte smentite rispetto all’immagine che mi ero fatto. Di bastardi morbosamente innamorati del loro potere ne ho conosciuti. Ma ho conosciuto anche funzionari onesti ai quali avrei messo tranquillamente in mano il mio destino con la garanzia di essere trattato con giustizia. Non ci credete? Ce n’erano tanti. E probabilmente è ancora così anche se ora non frequento come allora questure e posti di polizia. E ce ne fu uno in particolare con il quale poco tempo fa ho parlato proprio del film di Pirro e Petri. Allora era alla Digos, il nuovo nome della “Politica”. Arrivava alla manifestazioni preparatissimo. Interrogava gli studenti sui loro stessi volantini e li sgridava quando non erano pronti. Una volta discusse per mezz’ora buona con un ragazzo, che guidava un corteo non autorizzato, sul concetto di mito nella narrazione storica dell’evento politico. Lo spunto era Che Guevara. Si formò intorno un capannello e la manifestazione si sciolse spontaneamente. Poi disse agli organizzatori che i motivi per i quali manifestavano erano giusti e li convinse a chiedere una regolare autorizzazione. Aveva un concetto di legalità talmente rigido, unito a un senso dell’umorismo così fine, che quasi non credevi fosse un poliziotto italiano nell’accezione allora comune della figura. E non solo intelligente e colto, anche furbo come un volpe. Ti dava l’impressione di darti un mucchio di notizie riservate e poi quando tornavi al giornale e ti mettevi a scrivere ti accorgevi che non ti aveva detto un cazzo. Ma se gli chiedevi di aiutarti a interpretare un fenomeno, capivi che cosa significhi fare bene il poliziotto. Una volta mi parlò a lungo dei rischi, sul piano della criminalità, dei progetti urbanistici su certe zone del litorale di Platamona. Cominciai a prendere appunti e lui mi disse di scrivere ciò che volevo ma di non citare la fonte. Pubblicai un articolo in cui mi attribuivo quelle osservazioni e mi telefonò un noto e bravissimo sociologo dell’università per farmi i complimenti per la “mia” approfondita analisi. Ha fatto una grossa carriera, quel poliziotto. E questo mi fa pensare che forse, in fondo, c’è anche uno Stato che premia gente così. Pochi anni fa, mi sembra parlando dei fatti di Genova, gli chiesi se esistessero o fossero mai esistiti suoi colleghi simili a quelli del film di Pirro. -Che ammazzano l’amante e lasciano le prove per farsi scoprire? Così coglioni non credo. -Dai, parlo sul serio: poliziotti che hanno quel concetto di potere. -Tu ne hai conosciuti? -Forse sì. -Qual è il poliziotto che conosci meglio? -Probabilmente sei tu. -E io sono come quello? -No. -Meno male. -Dimmi almeno se ti ricordi la citazione di Kafka che compare nei titoli di coda. -No. Gliene dissi il senso perché a memoria non la ricordavo. E comunque è questa: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano». Lui ci pensò un attimo. -Il Processo, vero? -Penso proprio di sì. -Non c’è parola di quel libro che non mi inchiodi a pensare. Grande, Kafka. Uno dei più grandi. -Ma tu pensi che la legge e i suoi uomini sfuggano al giudizio umano? -Ciò che mi piace di Kafka è soprattutto… E anche quel giorno non mi disse un cazzo. O forse tutto. E forse ero io a non capire, come quando tanti anni prima gli chiedevo notizie su un fatto di cronaca nera e tornavo al giornale con un sacco che a me sembrava vuoto ma che probabilmente, ora che ci penso, era pieno di roba.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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