Ci ritorno sempre. Ogni anno. E come ogni anno non posso fare a meno di ricordare quel giorno in cui le brigate rosse rapirono Moro ed un pezzo della mia adolescenza. E’ una sorta di rito e di maledizione, un terribile miscuglio tra follia e ideologia, tra paura ed eccitazione, tra sgomento e trepidazione. Stamattina, per esempio, mi è venuta in mente l’assemblea d’istituto che venne convocata subito dopo che a scuola si apprese la notizia. Fu il vicepreside, un convinto democristiano, a chiederci una serie di interventi contro quel barbaro fatto. Lo chiese ad un gruppo di noi maturandi, lo chiese perché lui, davvero, non sembrava in grado di poter intervenire e dire qualcosa. Lo facemmo in una di quelle giornate segnate dalla disorganizzazione più completa. Lo facemmo in un clima pasticciato e gonfio di incredulità. Noi, i ragazzi di quinta – e tra noi quelli più impegnati politicamente – eravamo inconsapevoli della gravità dell’atto ma sapevamo -rispetto agli altri – che quell’attentato e quel rapimento avrebbe segnato la nostra vita e il nostro futuro. Ci furono interventi molto duri e alcuni contro il governo Andreotti che si sarebbe insediato in quelle ore. Ci furono prese di posizione contro Enrico Berlinguer e quella decisione del partito comunista di astenersi durante la votazione della fiducia. Ci furono molti silenzi. I ragazzi, quelli più giovani, parevano come distratti, lontani e poco disponibili ad ascoltare. Ci furono i professori che restavano in disparte, come se la cosa non li riguardasse, come se fosse qualcosa esclusiva solo per gli studenti. Poi, quando l’assemblea pareva destinata a chiudersi in mezzo ad un fiume di retoriche parole, arrivò vicino alla cattedra della presidenza il vicepreside, il democristiano, e chiese di poter parlare. Era scosso, molto scosso. Cominciò il suo discorso balbettando e poi, con una veemenza sempre più forte e quasi ieratica gridò: “Per questi assassini va ripristinata la pena di morte”. Quelle parole squarciarono molte coscienze e si sentì un applauso prolungato, forse sincero che non poteva e non doveva essere la conclusione di quell’assemblea. Noi, quelli più impegnati politicamente, cominciammo a ribattere, provammo a far capire che non si ragiona con la pancia, provammo a far comprendere che era necessario utilizzare tutta la nostra pazienza, la nostra conoscenza, la nostra freddezza per comprendere quei gesti scellerati. Dicemmo, a gran voce, che la pena di morte non era una soluzione, rispondere alla morte con la morte non poteva farci crescere. Passarono gli anni e dopo l’università ebbi modo di ritrovare il vicepreside al quale gli ricordai l’episodio dell’assemblea. “Ho detto una cazzata” mi disse ridendo e mi strinse la mano, “a volte è necessario riflettere ed imparare dai giovani. Voi mi avete insegnato che avevo sbagliato”.Ci ritorno sempre. Ogni anno. A quel 16 marzo 1978. A quei miei diciannove anni, alle mie canzoni, alle mie speranze, ai miei perduti amori. A quell’assemblea così colorata, così confusa e apparentemente inutile. A quella cazzata sulla pena di morte e a quella voglia di continuare. Non è servita la vendetta. E’ bastato comprendere ed è bastata la forza di un paese che non ha accettato quella maledetta sentenza eseguita il 9 maggio 1978 da un sedicente tribunale del popolo. Quella condanna a morte scaturita dall’odio e dalla pancia ideologica delle brigate rosse. Ci ritorno sempre e la mia considerazione è sempre la stessa: siamo cresciuti tra le pieghe del terrorismo e abbiamo imparato ad analizzare i fatti. Non possiamo ritornare indietro. Non possiamo emettere sentenze in nome di un popolo che non c’è. Il 16 marzo 1978 si spense la luce sul futuro. Probabilmente senza quella strage il paese sarebbe diverso. Questo non possiamo affermarlo con certezza e forse solo immaginarlo. Però, quel giorno, in quell’assemblea, quando ci dicemmo fermamente contrari alla pena di morte dimostrammo, con le nostre insicurezze, le nostre paure e la nostra ingenuità di voler costruire un paese seguendo la carta costituzionale, dimostrammo di essere pronti ad osservare l’orizzonte e verificarne il bagliore. Ci ritorno sempre a quel 16 marzo 1978. Alla mia adolescenza recisa, alle urla smorzate, alla voglia di puntualizzare che le brigate rosse non erano compagni che sbagliavano ma semplici assassini. Ritorno a quelle scelte e a quella decisione che ancora mi accompagna: la storia degli uomini è molto complessa e non basta una frase per risolvere tutto. Sarebbe tutto molto bello e molto facile. Siamo cresciuti in momenti oscuri e siamo riusciti, nonostante tutto, a colorare le strade del nostro passaggio. Abbiamo imparato a ricucire le ferite senza dimenticarle. Quel 16 marzo è come un tatuaggio scolpito nell’anima di chi in quegli anni scorreva l’esistenza tentando di comprendere la complessità di quei giorni. Non siamo dei reduci, siamo solo quelli che quella storia l’hanno vissuta in prima persona e da quella storia hanno tracciato la parabola della propria esistenza. Questo è il mio ritornare, il mio voler ricordare, il mio piccolo sasso gettato nello stagno del silenzio, il mio ricordo che rimane scolpito per sempre e dal quale non mi libererò mai.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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